Esiste una regola nel giornalismo. Dice, grosso modo, che un giornalista non deve stare dalla parte di niente che non sia la verità dei fatti. Questa regola è riassunta da un vecchio adagio che dice che se un giornalista incontra una persona che dice che piove e un’altra che dice che c’è il sole, il suo dovere non è dare voce equanimemente all’uno e all’altro, ma aprire la finestra e vedere che tempo fa. Questa regola, questa fissazione per la verità, da tempo è stata derubricata, più o meno in tutto il mondo, a vaga dichiarazione di intenti.
È successo un po’ per ragioni di sistema (costi, crisi dell’editoria, ecc) e un po’ perché aprire le finestre è faticoso. Ma soprattutto è successo per ragioni di mercato. Che tempo faccia fuori, davvero, non interessa a nessuno. Interessa solo il tempo che si desidera faccia.
Non è un fenomeno del tutto nuovo. Diciamo che risale grossomodo all’inizio degli anni ’90 (cioè molto prima che arrivassero i social) quando, caduto il Muro, la politica ha smesso di essere faccenda di ideologia ed è diventata faccenda di identità. In pratica, votare questo o quel partito ha smesso di avere a che fare con il modo in cui si definisce il mondo e ha cominciato ad avere a che fare con il modo in cui si definisce se stessi. Fare politica, in sintesi, ha smesso di essere una cosa pubblica, ma è diventata una faccenda privata. «Io sono» ha preso il posto di «Io voglio».
L’informazione è cambiata di conseguenza: vuoi per pigri tic, vuoi per sopravvivenza.
Il caso di Fox News, esploso poche settimane fa, è un buon esempio di questa trasformazione del giornalismo, passato da essere strumento per conoscere la realtà a essere strumento di conferma di sé.
Per chi si fosse perso le puntate precedenti, le cose stanno così: dai primi anni 2000 Fox News è il principale mezzo di informazione e formazione della destra americana. Per 24 ore al giorno trasmette peana continui al partito repubblicano e (dal 2016 in poi) a Donald Trump «Il miglior Presidente di sempre». Lo fanno i suoi speaker, i suoi giornalisti, i suoi editorialisti, persino i suoi comici. Tutto è impregnato di lode trumpiana. Effetto, ma soprattutto causa, di questo tono smaccatamente pro Trump è il fatto che il suo pubblico sia un unico e compatto blocco di estrema destra, complottista e suprematista bianco.
Chiariamoci, era così anche prima di Trump. Fox News è nata per essere l’anti CNN (che invece è su posizioni molto progressiste) e fin dalla sua nascita ha sostenuto con vigore e forza la presidenza di George W. Bush, e ha denigrato quella di Obama. Eppure, mai nessuna simbiosi era parsa solida e completa come quella verificatasi con Trump.
Negli anni della Presidenza Trump, si è creata una specie di saldatura tra Trump e Fox News: Fox News dava eco solo alle parole di Trump, incensandole e deridendo chiunque non vi fosse perfettamente allineato e Donald Trump, da par suo, di fatto disegnava la sua agenda di Presidenza fotocopiandola sul palinsesto di Fox News. Negli anni di Trump non c’è stata soluzione di continuità tra la Casa Bianca e Fox, tra Fox e la Casa Bianca. Poi, durante lo scrutinio delle elezioni del 2020, è successo l’impensabile: Fox ha tradito Trump.
Nelle ore più delicate dello spoglio, quelle in cui iniziava a intravedersi la malaparata per Trump, Fox ha fatto una cosa inaudita e ha detto ad alta voce una verità, anche se era sgradita a Trump. La verità di quel caso era che i numeri parlavano chiaro e che l’Arizona, stato in bilico, era stata vinta da Joe Biden. Fino a quel momento nessuno lo aveva ancora detto. Neppure la superprogressista CNN. Il fatto che l’Arizona fosse stata «chiamata» per Biden era il sigillo sul fatto che per Trump le cose si stavano mettendo davvero male e che, praticamente, l’elezione era cosa fatta.
Il racconto di quella notte vuole che Trump, furioso, abbia telefonato ai suoi contatti a Fox, travolgendoli di urla. Urla così furiose da convincere la rete a rimangiarsi tutto e dire, in diretta, scusate ci siamo sbagliati, non ci sono dati a sufficienza per assegnare l’Arizona. Una verità (l’Arizona era in effetti stata vinta da Biden) rettificata con una bugia.
A quella prima bugia, nei mesi seguenti, ne sono seguite svariate altre: continuo sminuire i fatti del 6 gennaio, continuo sibilare le ipotesi più strampalate sui vaccini e sulle mascherine, continuo sospirare sulla scelleratezza di Biden nel gestire la faccenda ucraina e soprattutto continue illazioni sul fatto che la vittoria di Biden non fosse legale, ma frutto di brogli e pasticci. Tutto secondo i dettami del trumpismo più puro.
Eppure negli scorsi mesi qualcosa si è rotto di nuovo. Si è rotto per due motivi. Il primo, il trionfo di Ron DeSantis in Florida che ha dato agli speaker di Fox l’idea che si affacciasse all’orizzonte un nuovo leader, per il quale valesse la pena buttare a mare quello vecchio.
La seconda: l’azienda Dominion Voting Systems, che produce macchine per il voto elettronico, esasperata dal fatto che Fox continuasse a ripetere che i suoi dispositivi si erano mangiati i voti, ha deciso di far causa a Fox per un miliardo e 600 mila dollari. Quello che sostiene Dominion non è tanto che i giornalisti di Fox abbiano detto cose infondate. Ma che le abbiano dette nella piena consapevolezza del fatto che erano infondate.
Così, in fase di istruttoria sono state acquisite prove e testimonianze del fatto che i giornalisti di Fox mentivano sapendo di mentire, e che, in fondo, anche l’amore di Fox per Trump era una bugia. Non solo mentivano sui fatti, ma mentivano anche sulle loro opinioni.
Per esempio, sono emerse chat private nelle quali Tucker Carlson, l’aedo più muscolare del trumpismo, dice di «detestarlo», «di odiarlo con tutto il cuore» che «la presidenza Trump è stato un disastro», di «non vedere l’ora di toglierselo di torno», e che il suo rifiuto di partecipare all’inaugurazione di Biden è «disgustoso».
Sempre dalle chat emerge che anche gli altri cantori dell’ex presidente (volti notissimi come Sean Hannity, Jeanine Pirro o Lou Dobbs) non credevano a una parola di quel che dicevano ed erano perfettamente consapevoli del fatto che la presidenza Trump fosse stata pessima e che la propaganda dell’ex Presidente fosse infarcita di balle. Balle che però loro stessi ogni sera in tv ripetevano con convinzione e capacità di persuasione. Persino l’editore Rupert Murdoch ha dichiarato di essere consapevole che le teorie del complotto di Big Lie fossero completamente inventate e che non ci fossero dubbi sulla legittimità delle elezioni. E allora la domanda è: perché?
Perché per quasi tre anni l’emittente di news più seguita d’America (ha un pubblico molto ridotto, circa 1 milione e mezzo di spettatori al giorno, ma comunque triplo di quello di CNN che si attesta attorno ai 500 mila) ha detto e ripetuto bugie che sapeva essere bugie? La risposta si trova in un altra chat di Carlson, nel quale lui avverte i colleghi di guardarsi da Newsmax. Newsmax è un’altra emittente di news, molto più piccola e molto più trumpiana (se possibile) di Fox.
Dalla notte delle elezioni, una larga fetta del pubblico di Fox si era spostato lì, ritenendo la rete di Murdoch non sufficientemente ortodossa e leale verso Trump.
Perché il paradosso è questo: per evidenti ragioni economiche la sorte dell’informazione è nelle mani di chi quell’informazione la compra, la clicca, la guarda. E il fatto che chi compra, clicca o guarda non abbia nessun interesse per la verità o anche solo per la realtà, fa sì che oggi chi dice, magari anche con toni partigiani, cose vere, non interessi più a nessuno.
Il problema, dunque, non sono Sean Hannity o Tucker Carlson. E forse non è neppure Trump. Sono gli spettatori. Spettatori che, quando accendono il notiziario, vogliono sentir parlare di sé.