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Il processo a Eichmann visto da Horkheimer – Il Riformista

La biblioteca della sinistra

Filippo La Porta — 25 Gennaio 2023

Il processo a Eichmann visto da Horkheimer

Scusate se insisto sempre sullo stesso punto, e cioè la assenza di qualsivoglia biblioteca nei nostri partiti attuali. Nessuno riuscirebbe a immaginarla. Un’assenza che alimenta la confusione attuale sui confini tra destra e sinistra. In particolare la sinistra, orfana di tutto, non sa più riconoscere le proprie tradizioni, e a volte sembra perfino che se ne vergogni. Ora, bisogna scegliersi la tradizione giusta e saperla – saggiamente – riattualizzare. Nel Novecento la Scuola di Francoforte – Adorno. Horkheimer, Marcuse… – è una di queste tradizioni, perfino con il suo pessimismo su come va il mondo e sulle cosiddette sorti progressive.

Prendiamo Max Horkheimer, formatosi su Hegel e su Schopenhauer, oltre che su Marx. Nei suoi Taccuini 1950-1969 (Marietti 1989) – preziosi per chiunque intenda oggi rilanciare il bagaglio etico della sinistra – ci invita non tanto a contrapporre progressisti e conservatori quanto a distinguere in ogni singola persona tra l’uomo-massa (conformista, omologato, egoista, pronto a obbedire al capo), cui importa esclusivamente di se stesso, e il vero individuo singolo. Ora questo individuo singolo “si riconosce unito agli altri non tanto nel perseguimento degli interessi immediati, quanto piuttosto nella miseria di coloro che sono esclusi, di quelli che sono malati, perseguitati, condannati, proscritti, ciascuno dei quali è ‘singolo’ in un senso doloroso e disperato”. Perché mai dovrebbe riconoscersi nella miseria degli esclusi? Non per un sentimento umanitario o per una specie di dover-essere cattolico né perché gli esclusi liberando se stessi libereranno tutti, ma perché è in gioco la propria parte “esclusa”, esposta sempre al caso e alla sventura. Insomma la propria paura, che opportunamente vagliata al lume della ragione può fondare quella solidarietà senza cui il singolo non è pensabile.

E ancora: qualche giorno fa ho prodotto alcuni argomenti a favore del garantismo appellandomi perfino alla tradizione ebraica della Mishnà e alla figura di Aronne, molto amato perché incapace di giudicare. Ora, Horkheimer, che era ebreo anche se non si appassionò allo stato di Israele (che per lui sta all’ebraismo come la chiesa cattolica sta al cristianesimo), scrive che l’origine del comportamento morale è dovuto alla mimesi: in particolare, nell’infanzia i gesti della generosità, dell’amore, della “libertà dalla vendetta” sono oggetto di una esperienza così intensa da diventare un elemento permanente del comportamento. Si diventa “morali” imitando, da piccoli, quei gesti, almeno se ci è stato possibile farlo. Così come i cristiani auspicavano la imitazione di Cristo, mentre regole e dogmi sono del tutto secondari. Ma da qui, dalla “libertà dalla vendetta” andiamo al nucleo forse più scandaloso, e certo discutibile, di questi Taccuini. Nel 1961 Horkheimer intende prendere le distanze dalla cattura e dal processo, da lui considerato illegittimo, ad Eichmann (che non ha ucciso in Israele): “I processi penali per calcolo politico appartengono all’arsenale dell’antisemitismo, non a quello del popolo ebraico”.

Il pensatore tedesco manifesta la sua profonda diffidenza per il concetto stesso di espiazione, che per lui implicherebbe qualcosa di tenebroso, evocante i primordi della storia germanica e dell’Inquisizione. Qui introduce una distinzione. Da una parte capirebbe una volontà dichiarata di fare vendetta: se cioè uno avesse perso padre e madre sotto Hitler e avesse scovato il boia in Argentina, ammazzandolo sulla pubblica strada, “come uomo tutti lo avrebbero capito”. Però dall’altra il processo istituito in Israele, con la volontà di “fargli del male” tradisce secondo lui “sentimenti volgari”. Aggiunge che nessun popolo ha sofferto più di quello ebraico – della sofferenza ha fatto il suo elemento di coesione, impedendole di generare cattiveria – : “Gli ebrei non sono ascetici, essi il dolore non l’hanno adorato, bensì subito”. Proprio perciò se un ebreo trovasse naturale di fronte a Eichmann vederlo soffrire, allora contraddirebbe alla sua religione e a tutto il retaggio della sua storia. La punizione di Eichmann “avrà solo il risultato di fargli un po’ di quel male che ha nobilitato i morti”.

Ora, sappiamo che in realtà Eichmann non fu maltrattato né torturato – anzi lo stato di Israele gli pagò l’avvocato (tedesco) -, e nel processo, formalmente ineccepibile dal punto di vista del diritto internazionale, non vi era spazio per ritorsioni. Personalmente continuo a ritenere quel processo legittimo, storicamente e giuridicamente, tuttavia mi colpisce l’atteggiamento di Horkheimer (simile a quello di Martin Buber, e di una parte stessa dell’opinione pubblica di Israele in quel momento): veder soffrire qualcuno non può essere fonte di soddisfazione non solo per un ebreo ma per nessun essere umano. Forse così Horkheimer nega uno strato arcaico della nostra psiche (insomma chiede troppo all’essere umano), e un poco disinnesca quel meccanismo della giusta vendetta che sottende i film d’avventura che ci appassionano. Però se davvero ci si riconosce in coloro che soffrono – per essere stati esclusi – allora non si può godere della sofferenza neanche di chi pure fu un carnefice.

Infine, un aforisma che ribalta un luogo comune diffuso, e che mette radicalmente in discussione la mentalità calvinista che informa di sé la nostra società capitalista, invitandoci a qualche riflessione sulla recente querelle intorno alla meritocrazia. Si intitola: “Felicità senza merito”, e dice così: “Un tale eredita molti soldi. Che bello possa vivere così, senza nessun merito né lavoro né sofferenza! E la gente strilla ‘Com’è ingiusto!’. Ma non vedete che si tratta di quel poco di giustizia che è rimasta in questo mondo? Una felicità – senza merito?”. Pensateci bene: in un certo senso la ricchezza di uno che semplicemente l’ha avuta inaspettatamente in eredità, che non ha fatto nulla per conquistarla e meritarsela, ha qualcosa di meravigliosamente utopico. Mica dobbiamo “meritarci”la felicità, no? La vita non è tanto un compito o una performance quanto un dono. Ecco, credo su questa utopia del “non merito” difficilmente una destra potrebbe acconsentire.

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