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Salario minimo: sostegno alla contrattazione o esproprio delle relazioni industriali?

Si stabilisca pure un salario minimo come strumento di garanzia dove non c’è contratto o dove effettivamente si è dato vita a un contratto di “comodo”. Ma usare il salario minimo per fini impropri può soddisfare interessi politici ed elettorali ma non fa un servizio né al sindacato né al paese. L’analisi di Walter Galbusera, già leader sindacale nella Uil e ora presidente della Fondazione Anna Kuliscioff

Il mondo politico italiano spesso trasforma questioni semplici in grovigli inestricabili da cui è difficile uscire. Ciò potrebbe accadere nel caso del salario minimo, che sembra essere divenuto una sorta di pietra filosofale.

L’Unione europea, al fine di tutelare il lavoro più debole, ha chiesto agli Stati nei quali la copertura contrattuale è bassa di adottare per l’appunto un salario minimo. A rigor di logica non è il caso dell’Italia dove la contrattazione collettiva arriva a garantire il 92% dei lavoratori. Ma neppure sarebbe vietato adottarlo nel nostro paese se è vero che c’è anche in Germania, un colosso economico con fortissimi sindacati e retribuzioni di tutto rispetto.

Il problema nasce perché in realtà c’è un equivoco su quale sia la reale funzione di un salario minimo che dovrebbe razionalmente costituire la garanzia perché le fasce di lavoratori professionalmente più deboli, in particolare nei settori marginali, vengano retribuiti con una paga oraria che, almeno per convenzione, si considera equa. Ma chi lo stabilisce?

Nei paesi dove il sindacato è forte e sufficientemente rappresentativo, come nel nostro paese, tocca alla contrattazione fissare i minimi contrattuali. Ma è anche vero che una parte, seppur marginale, sfugge a ogni contrattazione o, in alcuni casi, i contratti collettivi stipulati dalle parti prevedono valori retributivi molto bassi. In tali circostanze anche la magistratura può in qualche modo intervenire. In una recente sentenza della Corte d’Appello di Milano è stato “disapplicato” un contratto collettivo della vigilanza perché prevedeva una retribuzione “considerata al di sotto della soglia di povertà” sostituendolo con un contratto di un settore considerato affine, come quello del portierato.

La funzione del salario minimo è dunque quella di impedire che la retribuzione oraria non scenda sotto un certo livello.

L’equivoco nel nostro paese nasce dal fatto che dietro l’idea di stabilire un salario minimo si persegue in realtà l’obiettivo di aumentare almeno una parte significativa dei salari. Il fine è certo nobile e, detto per inciso, può essere utilizzato in una qualunque campagna elettorale. Naturalmente ci sarà da mettere in conto una dura competizione tra i vari partiti che terranno poco conto delle medie e ancor di meno dalle differenze tra il potere d’acquisto delle diverse aree del paese, puntando a un rilancio del valore del “minimo” per apparire più vicini ai lavoratori/elettori.

Ma questo, oltre ad incrementare il lavoro nero, in particolare nel Mezzogiorno, favorirebbe una sorta di deresponsabilizzazione del sindacato, assai dannosa per un soggetto collettivo che fa della contrattazione la sua principale ragion d’essere. Tanto più se accompagnata dalla tentazione di accelerare un processo di graduale statalizzazione del salario perseguito dalle crescenti richieste di fiscalizzazione non selettiva degli oneri sociali. Senza contare che un trasferimento oltre misura dell’intervento del Parlamento sulle materie contrattuali esporrebbe il paese al rischio di esproprio del ruolo di tutte le parti sociali. D’altra parte se il Parlamento, per qualsivoglia ragione, ritiene necessario aumentare le retribuzioni può agire riducendo la pressione fiscale.

Fissare un salario minimo si può ma attraverso passaggi logici e rispettosi di un sistema, come quello della contrattazione collettiva, nazionale e aziendale, che è una spina dorsale delle relazioni sociali e del sistema economico. I minimi salariali dovrebbero essere quelli previsti da tutti i contratti, nazionali, territoriali e aziendali a cui sembra rinviare il combinato disposto tra l’articolo 36 della Costituzione (Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge) e il successivo articolo 39 (I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce) che stabilisce le regole per dare efficacia generale ai contratti (erga omnes) nei confronti degli interessati.

È così difficile trovare una soluzione, magari in sede di CNEL, a partire dalla reale rappresentatività dei soggetti firmatari (iscritti regolarmente tesserati, numero certificato dei delegati eletti nelle strutture di base nei luoghi di lavoro, numero di iscritti alle associazioni imprenditoriali) e magari apportando qualche necessario aggiornamento allo stesso articolo 39?

Se la questione pare oggi complicata per il contratto nazionale, è assai semplice per i contratti aziendali definiti, come quello di Stellantis (l’ex Fiat), contratti collettivi speciali di lavoro che vengono approvati o respinti spesso attraverso un referendum nelle fabbriche e negli uffici.

Certo, qualcuno potrebbe invocare il sindacato unitario di tutti lavoratori, ma purtroppo non è realistico e non solo per il doveroso rispetto della libertà e del pluralismo sindacale. È invece possibile e necessario convenire sull’unità di regole condivise per accertare il grado di rappresentatività delle singole organizzazioni stipulanti, senza dimenticare una delle prassi ormai affermata, anche per merito del sindacalismo italiano, di far votare tutti i lavoratori interessati, iscritti e non iscritti.

Non sarebbe male poi prendere in considerazione le regole complessive che disciplinano le relazioni industriali in altri paesi europei, a partire dalla Germania che non può essere solo temuta come un gigante economico.

Si stabilisca pure un salario minimo come strumento di garanzia dove non c’è contratto o dove effettivamente si è dato vita a un contratto di “comodo”. Ma usare il salario minimo per fini impropri può soddisfare interessi politici ed elettorali ma non fa un servizio né al sindacato né al paese.

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