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Vittime due volte | I migranti sanno quant’è rischioso partire, ma lo è meno che restare – Linkiesta.it

Si scrive «lotta al traffico di essere umani» e si legge «chiusura delle frontiere». La riunione interministeriale sui Balcani occidentali che si è tenuta il 3 aprile alla Farnesina tra Antonio Tajani, il commissario europeo per l’Allargamento Olivér Várhelyi, il ministro degli Esteri svedese Tobias Billström in qualità di presidente di turno del Consiglio dell’Unione europea e i ministri degli Esteri di Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia, ha messo al centro il tema migratorio e quella che viene definita «Rotta Balcanica», un insieme di percorsi che nell’ultimo decennio sono stati la via d’accesso in Europa principalmente per gli afghani, i siriani e gli iracheni, in fuga dai talebani, dall’Isis, da Assad da tutti gli altri fattori di destabilizzazione presenti in quei Paesi.

Dopo la strage di Cutro e dopo la sciagurata domanda della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, «Eravate consapevoli dei rischi legati alle traversate del Mediterraneo?», si è parlato molto di soccorso in mare e delle responsabilità di quello che è accaduto a poche centinaia di metri dalla spiaggia calabrese. Quella che ancora una volta è mancata nel dibattito pubblico è stata una riflessione sui motivi delle partenze, sulla necessità di partire ad ogni costo, anche quello di morire.

In queste ore l’amministrazione di Joe Biden ha reso pubblico un dossier sul ritiro dall’Afghanistan delle truppe americane nel quale scarica ogni responsabilità sul suo predecessore Donald Trump e sugli accordi presi da quest’ultimo con i Talebani a Doha, un anno e mezzo prima della ritirata e della rapida riconquista dello Stato da parte degli islamisti, segno che non erano mai stati sconfitti ma solo allontanati dalle zone dove c’erano gli occidentali.

Tutti ricordiamo i giorni d’agosto in cui la folla spinge in ogni direzione per cercare di prendere un aereo verso gli Stati Uniti o l’Europa, un brulicare di paura e rabbia che ha fatto solidarizzare il mondo con chi ha provato ad aggrapparsi al carrello dell’aereo o a salire su di un’ala, morendo di una morte meno tormentata rispetto a quella in mano ai Talebani.

Scappavano da un inferno che i più vecchi ricordavano bene, ma che i più giovani conoscevano dai racconti dei loro genitori: una vita fatta di privazioni e paura, dal cibo alle libertà individuali. La gestione del potere da parte dei Talebani è totalitaria, nel senso più stretto, come lo abbiamo studiato a scuola, che ti entra fin dentro casa e controlla ogni aspetto della vita.

Ma se nei Talebani qualcosa, rispetto al passato, è cambiato è che non hanno scelto di colpire tutto insieme, lo hanno fatto un po’ alla volta mentre tranquillizzavano il mondo che «erano cambiati», che avrebbero rispettato i diritti umani. Così il mondo, dopo una veloce indignazione durata non più di tre mesi, ha iniziato a guardare altrove e oggi le donne si ritrovano prigioniere, di nuovo.

La notizia più recente è il divieto per loro di lavorare per le Nazioni Unite, l’unica organizzazione internazionale che garantisce un minimo di aiuto alla popolazione, colpita duramente dalla crisi economica creata dall’isolamento politico di Kabul. Oggi poco più della metà della popolazione afghana vive al di sotto della soglia di povertà e camminando per le strade della capitale la miseria è evidente a tutti.

Tra chi scappa c’è Rashid (nome di fantasia) che ha lavorato per la missione Isaf fino a poche ore prima che tutto precipitasse: «Nei giorni successivi alla loro presa del potere, cercavano chi aveva lavorato con gli occidentali. Arrestavano, torturavano, uccidevano. Io ho cambiato città, sono andato in un quartiere popolare di un grande centro dove nessuno mi conosceva, per un po’ abbiamo vissuto al riparo ma poi il cerchio attorno a me si stava chiudendo e così sono dovuto scappare con la mia famiglia».

Lo racconta pochi giorni dopo che ha varcato il confine afghano alla volta dell’Iran, Paese che accoglie quasi un milione di afghani, secondo solo al Pakistan che ne accoglie uno e mezzo. Ma lui e la sua famiglia non si fermeranno in Iran, anch’esso in mano ai fondamentalisti religiosi e che non garantisce i diritti ai rifugiati. Si metteranno in viaggio alla volta dell’Europa.

«In Afghanistan avevamo contato le ore, al massimo i giorni, di sicuro non i mesi, prima della nostra morte. Questa è una certezza. Sappiamo che viaggiare verso l’Europa è rischioso, non possiamo prendere un aereo perché nessuno ci concede un visto e siamo costretti ad attraversare frontiere e saremo esposti alle violenze delle polizie locali. Rischieremo di annegare in mare o di morire di freddo sulle montagne, però abbiamo scelto questa opzione perché abbiamo il dieci per cento di possibilità di vivere e di farlo dignitosamente. Restando in Afghanistan le possibilità erano nulle», aggiunge Rashid durante la nostra conversazione al telefono e sembra che indirettamente voglia rispondere alla domanda di Giorgia Meloni: «Sì, lo sappiamo quanto è pericoloso, ma non abbiamo altra scelta che provarci».

Da domani Rashid e la sua famiglia saranno in viaggio e rispetto ai suoi connazionali che hanno provato la Rotta Balcanica nei mesi o negli anni scorsi troverà le frontiere ancora più chiuse, oltre alle polizie locali ancora più mobilitate lungo i confini. Effetto della riunione della Farnesina dei giorni scorsi.

Lui e gli altri in marcia saranno doppiamente vittime: dei trafficanti che si fanno pagare approfittando delle frontiere chiuse e dei governi, che in nome della lotta a quei trafficanti chiuderanno ancora di più le frontiere, gettando in pasto Rashid proprio a quelli che pensano di combattere.

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