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5G, ecco quanto i paesi Ue hanno fatto affidamento sulle cinesi Huawei e Zte

Otto paesi Ue, Germania e Italia in testa, per le reti 5G hanno acquistato oltre il 50% delle tecnologie dalla Cina. L’articolo di Tino Oldani per Italia Oggi

Proprio mentre Ursula von der Leyen annuncia che l’anno prossimo la Commissione Ue si impegnerà nel lancio del Global Gateway, un piano di investimenti in paesi extra-europei, Africa in testa, per un ammontare di 300 miliardi entro il 2027 per contrastare la Via della seta e la penetrazione delle tecnologie cinesi, uno studio rivela che ben otto paesi Ue, compresi Germania, Olanda e Italia, per allestire le reti 5G (standard di quinta generazione per le telecomunicazioni) hanno acquistato finora più del 50 per cento delle tecnologie da fornitori cinesi, primo fra tutti Huawei, il colosso cinese messo al bando da Usa e Gran Bretagna.

Ciò significa che il disaccoppiamento delle economie dell’Occidente dalla Cina, diventato uno dei punti chiave della politica Usa, soprattutto in campo tecnologico, in Europa non ha funzionato, tranne poche eccezioni.

Lo studio, condotto da Strand Consult, società di consulenza sulle telecomunicazioni con sede a Copenaghen, ha calcolato la quota di tecnologia cinese acquistata fino ad oggi per il 5G da parte di 31 paesi europei. Ben otto hanno superato la quota del 50 per cento: Cipro 100%, Romania 76, Paesi Bassi 72, Bulgaria 65, Austria 61, Germania 59, Italia 51. Tra i paesi sotto il 50% figurano: Svizzera 43, Irlanda 42, Finlandia 41, Polonia e Spagna 38, Portogallo 34, Belgio 30, Grecia 25, Francia 17. Zero acquisti di tecnologie 5G cinesi da parte di undici paesi: Danimarca, Repubblica Ceca, Svezia, Norvegia, i tre paesi baltici Lituania, Estonia e Lettonia, Malta, Lussemburgo, Slovacchia e Isole Faroer.

Nella graduatoria, il Regno Unito compare con una quota del 41%, frutto di acquisti di tecnologie Huawei e Zte fatti prima che, nel luglio 2020, il governo inglese, diretto allora da Boris Johnson, vietasse alle compagnie telefoniche britanniche di proseguire nell’acquisto di tecnologie Huawei, dando tempo fino al 2027 per rimuovere tali tecnologie dalle loro reti 5G. Una decisione presa, all’epoca, principalmente come protesta contro la repressione di Pechino sull’ex colonia di Hong Kong, e solo in seconda battuta per allineare la Gran Bretagna agli Usa nel mettere al bando Huawei, le cui tecnologie sono sospettate di potenziale spionaggio.

Nel commentare lo studio, John Strand, fondatore della società di consulenza che porta il suo nome, non ha nascosto l’avversione per Huawei: «Dipendere dalle reti di comunicazione cinesi rischia di essere più pericoloso che dipendere dal gas russo. Predicare, in Europa, è più facile che praticare». Giudizio che sembra fare eco a una recente presa di posizione di Margrethe Vestager, vicepresidente della Commissione Ue e responsabile dell’Antitrust europeo, che il 10 novembre scorso aveva esortato i paesi Ue a «ridurre senza indugio, con urgenza, i rischi connessi alle apparecchiature di telecomunicazione cinesi per il 5G».

Un invito da lei rivolto in modo esplicito soprattutto alla Germania, paese che, per lo studio danese, costituisce «l’hotspot di Huawei in Europa». Ha precisato Vestager: «Un certo numero di paesi hanno approvato la direttiva europea, ma non l’hanno messa in atto. Non è solo la Germania, ma anche la Germania».

Nel 2020, infatti, i paesi Ue hanno approvato il «5G Security Toolbox», volto a ridurre la dipendenza tecnologica da «fornitori ad alto rischio» per le future reti di telecomunicazioni, con l’obiettivo puntato su Huawei e sul suo concorrente cinese Zte. Questa indicazione correggeva, senza però cancellarla, una precedente direttiva Ue del marzo 2019, con cui la Commissione Ue non poneva nessun veto su Huawei in materia di cybersicurezza, ma lasciava ai singoli Stati la libertà di agire sulla base del rischio rilevato per la sicurezza nazionale.

In pratica, un patchwork legislativo Ue pieno di scappatoie, grazie al quale Huawei è stata molto rapida nel vendere le sue tecnologie ai paesi che si sono mossi per primi nell’allestire le reti 5G. Tra i più svelti, l’Olanda, che ha completato la rete 5G a tempo di record, con il 72% di tecnologia Huawei. Altrettanto rapido è stato Deutsche Telekom, il maggiore operatore tedesco, che non solo ha lavorato con Huawei nella prima fase del lancio del 5G, ma ha mantenuto per anni una partnership strategica con il colosso cinese, stipulata nel 2019 con la benedizione di Angela Merkel.

Solo di recente il governo tedesco ha definito un quadro giuridico che consente di intervenire in materia di cybersicurezza, ma solo se i ministri competenti lo vogliono. Risultato: il mese scorso il ministro dell’Economia, Robert Habeck, verde, ha posto il veto all’acquisto di una fabbrica di semiconduttori tedesca (Elmos) da parte della Silex, filiale svedese della cinese Sai Microelectronics. Una svolta forse più apparente che reale, che non ha impedito a Scholz di recarsi a Pechino per incontrare Xi Jinping, primo leader europeo a farlo dopo la conferma al potere del leader cinese.

Sempre in materia di cybersicurezza, nel 2019 anche l’Italia, su pressione degli Stati Uniti (presidenza Donald Trump), ha varato una legge per dotare il governo di poteri speciali («golden power») a tutela delle imprese di interesse nazionale. Poteri che l’atlantista Mario Draghi ha esercitato due volte, per impedire che gruppi cinesi acquistassero due aziende italiane, la Lpe (circuiti integrati) e Robox (robotica). Altrettanto si è impegnato a fare Adolfo Urso, nuovo ministro dell’Industria, «per difendere le aziende italiane dalle mire straniere, Cina e Russia in testa». Resta però il fatto che la rete 5G italiana, per più di metà, dipende da tecnologie cinesi. E tornare indietro non sembra né previsto, né facile in tempi brevi.

Articolo pubblicato su italiaoggi.it

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