Che cosa cela l’Inflation Reduction Act di Biden, il protezionismo degli americani, le preoccupazioni di Europa e Giappone, gli scenari geopolitici. Conversazione con Carlo Pelanda, analista, saggista e docente di Geopolitica economica all’Università degli Studi Guglielmo Marconi
L’Inflation Reduction Act? È un provvedimento che asseconda l’orientamento protezionista dell’elettorato statunitense ma che soprattutto segue la volontà degli Usa di riportare a casa alcune produzioni strategiche secondo il principio del reshoring dopo decenni di delocalizzazioni incontrollate.
Parola di Carlo Pelanda, analista, saggista e docente di Geopolitica economica all’Università degli Studi Guglielmo Marconi, che in questa conversazione con Start Magazine fa il punto sulle relazioni transatlantiche e sulle frizioni tra Usa e Ue sull’Ira che hanno spinto anche una personalità moderata come il nostro ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti a invocare il varo di un’Ira europea.
Prof. Pelanda, con l’Ira gli americani sussidiano le proprie industrie strategiche. È uno scandalo?
Direi proprio di no. Il provvedimento è in linea con una tendenza consolidata già da tempo, che è quella del reshoring, ossia la volontà di riportare negli Stati Uniti tutta una serie di produzioni critiche nel manifatturiero. In questo senso l’Ira assicura degli incentivi ai produttori Usa secondo il concetto di “Buy american”.
Ma questo non si chiama protezionismo?
C’è sicuramente una componente di protezionismo, che era stata esasperata dall’Amministrazione Trump e ora torna con Biden. Ambedue i presidenti si sono ritrovati a perseguire lo stesso duplice obiettivo, che è da un lato quello di combattere la deindustrializzazione degli Usa e dall’altro quello di ridurre la dipendenza dalla Cina in particolare per l’importazione di materiale semilavorato.
Gli europei però si sono infuriati. Questo non è stato previsto a Washington?
C’è la consapevolezza che questo tipo di legislazione tende ad essere limitativo dell’export europeo e che dunque vada in qualche modo modificata per evitare frizioni con gli alleati, tema che è oggetto di un apposito negoziato che è in corso – la prima riunione si è tenuta lo scorso lunedì -. Sappiamo che l’Amministrazione Biden ha previsto delle deroghe per Canada e Messico. L’idea è ora quella di concedere la stessa deroga all’Unione europea. Tuttavia in America è molto forte la posizione secondo cui gli europei dovrebbero adattarsi e trasportare la loro produzione negli Usa.
Alcuni nell’Unione europea ritengono necessario ricorrere al Wto. È un’ipotesi realistica?
Assolutamente no. Sarebbe inutile e per un motivo molto semplice, in quanto l’America a livello di Wto ha un potere di blocco che si esprime anche in sede di Corte d’appello. Quindi è inutile litigare nel contesto del Wto. Ritengo più fruttuosa piuttosto la strada del negoziato che, come dicevo prima, potrebbe far ottenere un allargamento all’Europa degli incentivi previsti dall’Ira. Quindi le produzioni europee di auto elettriche o batterie non saranno penalizzate. Il problema è che non è del tutto così.
In che senso?
Nel senso che gli europei hanno chiesto una modifica alla legislazione, ossia alle norme Usa, mentre l’Amministrazione Biden non è affatto intenzionata a modificare l’Ira ed è orientata a procedere attraverso un ordine esecutivo. Se questo passaggio formale servirà comunque a placare per il momento gli animi, bisogna tenere conto che, a differenza di una modifica legislativa, un ordine esecutivo può essere revocato o sostituito da un altro presidente con un nuovo ordine esecutivo. Questo crea una certa condizionalità, nel senso che finché convergi con me va tutto bene, se inizi a divergere so come colpirti. Ma c’è una questione di fondo molto più importante senza conoscere la quale non siamo in grado di comprendere questo dibattito.
Ce la vuole illustrare?
Nella compattazione del blocco delle democrazie a guida Usa c’è una incompletezza. Che deriva dal fatto che al processo di compattazione politica che si è visto per esempio contro la Russia e in parte contro la Cina manca il punto fondamentale, ossia il dare a quest’alleanza politica una solida base economica.
La solita questione dell’area di libero scambio?
Proprio così. Gli Stati Uniti, a fronte della richiesta europea di negoziare un trattato di libero scambio, sono riluttanti. Questo perché l’elettorato americano in questo momento sia a destra che a sinistra ha un orientamento protezionista. L’America ha dunque difficoltà a consolidare da un punto di vista economico le sue alleanze sia in Europa che nell’Indopacifico. Gli americani non vogliono dare un accesso privilegiato al mercato Usa. Anche l’attuale leadership americana, pur a fronte delle sue buone intenzioni, non se la sente in questo momento di favorire questo accesso soprattutto perché ha paura di pagarne il prezzo in sede elettorale. Questo ha delle implicazioni in termini di macrostrategia che se vuole le illustro.
Prego.
Cosa succede in termini di macrostrategia? Succede che nei confronti della Cina è in corso un processo guidato dalla volontà di riportare a casa le produzioni di materiali critici. Questo lo si può fare attivando un processo di reshoring nazionale oppure con un processo alternativo che si chiama friendshoring, ossia certe produzioni non le riporto a casa mia ma le colloco dentro un perimetro di alleati dai quali sono sicuro che non avrò problemi né di prezzo né di scarsità. Questo però implicherebbe la creazione di un mercato integrato delle democrazie e delle nazioni alleate anche se non sono democrazie: un processo che stenta ad avviarsi proprio per la difficoltà americana di dare concessioni economiche. Quindi abbiamo da un lato gli europei che osservano preoccupati il tentativo degli Usa di ridiventare potenza manifatturiera anche a scapito degli europei stessi e dall’altro abbiamo i giapponesi che hanno la stessa sensazione e si stanno comportando proprio come gli europei.
Ma gli europei, alla fine, cosa devono fare secondo lei?
Gli europei in questo momento si stanno muovendo in ordine sparso. La Germania ad esempio si è detta disponibile ad acquistare dagli americani un sacco di armi in cambio del mantenere relazioni commerciali con la Cina senza le quali il Paese sarebbe k.o. Vorrei però ricordare che Manfred Weber, capogruppo del Ppe all’Europarlamento ha chiesto almeno tre quattro volte disperatamente l’apertura di un negoziato Ue-Usa per arrivare a un trattato di libero scambio sulla scia di quanto era stato tentato dall’Amministrazione Obama con il Ttip. Ma la politica americana è sorda per i motivi che ho detto prima, ossia perché risponde a un elettorato che è orientato da un lato verso il protezionismo e dall’altro alla ricostruzione del potere manifatturiero Usa che era stato delocalizzato nel mondo.
E l’Italia come dovrebbe muoversi in questo contesto? Ricordo che Giorgetti si è detto a favore di un’Ira europea.
L’Italia certo non metterà a rischio neanche di un centimetro la sua relazione con gli Stati Uniti perché l’unica a poter fornire capitale politico a questo governo è l’America e non certo la Francia o la Germania. Però anche l’Italia ha il problema di ottenere in termini pratici dei privilegi dagli Usa, nel senso che io posso fare anche da cuneo atlantico rispetto all’Ue, ma tu cosa mi dai in cambio? Secondo me Giorgetti e il governo italiano non fanno bene a rilasciare dichiarazioni allineate con quelle dei partner europei. Tra l’altro si sta preparando un bilaterale tra l’Italia e Usa per vedere cosa si può fare per avere una relazione privilegiata, cosa che Macron ha tentato di fare con la recente visita di stato in America, senza però ottenere granché.
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