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Valpolicella di collina | Nemo propheta in patria – Linkiesta.it

È burbero quel tanto che basta a farne un personaggio simpatico, Graziano Prà, classe 1957 e grinta da vendere. «Quando imbottiglio una nuova annata, faccio un’unica prova. Prendo un branzino e lo cuocio al forno. Vado in cantina, prendo una bottiglia e la stappo a tavola. Se è una buona annata, lo capisci subito così».

E quella che ha appena imbottigliato sembra proprio che lo sia, e ha superato la “prova branzino” di questo signore del vino Soave, che da più di quarant’anni ha preso in mano i vigneti del padre e insieme a uno dei fratelli ne ha fatto un esempio per tutti coloro che pensavano che questa zona della provincia di Verona non potesse dar vita a grandi vini longevi.

Sentirlo raccontare la sua avventura è un bellissimo modo per capire quanto la determinazione, i giusti incontri ma anche la caparbietà e la cocciutaggine possano fare la differenza, quando si ha a che fare con dei progetti che poggiano più sul merito che sulla filosofia: «Ho cominciato a far vino con niente, non avevo nulla se non la formazione tecnica alla scuola enologica di Conegliano. Papà aveva i vigneti, e a vent’anni con uno dei due miei fratelli ho iniziato questa attività, andando in giro per cantine. È successo di tutto nei primi anni ’80: la gelata dell’85 ha fatto morire tanti vigneti nella zona del Soave, poi nell’86 è arrivato lo scandalo del metanolo. Il mondo stava cambiando, soprattutto il nostro, ma se siamo sopravvissuti a quel periodo e a quell’epoca così complicata… adesso si può solo crescere» ci racconta con il suo piglio schietto e la sua ironia.

«Il problema non era farlo, il vino, ma venderlo: all’inizio pur di venderlo facevo damigiane, non mi vergogno a dirlo. Nell’83 ho imbottigliato i primi 15 ettolitri, non immaginate nemmeno quanto ne fossi fiero. Poi alle fiere non lo compravano, poi dicevano che costava troppo, e mi deprimevo. Ma perseverare ha aiutato». E hanno aiutato anche gli incontri, belli e importanti, che hanno aperto le porte, la mente e il cuore a un uomo che di passione e di voglia era pieno: Veronelli, la Fivi, Carlin Petrini. Numi tutelari, amici, altri vignaioli che come lui stavano capendo come dare al mondo del vino italiano una nuova veste, e stavano correndo per una nuova avventura, dando avvio a un vero movimento rivoluzionario e alternativo, fatto di sfide, di provocazioni, di convinzioni e di determinazione.

E con i piedi ben ancorati nel territorio dove tutto ha preso avvio, come spiega Prà: «Il Soave di qualità è un grande vino, anche se la denominazione non ha mai creduto nella potenzialità di questa zona. La Garganega è un vitigno generosissimo, ma la collina scrive le rese e proprio lì c’è la possibilità di fare grandi bottiglie, anche longeve». E da qui a decidere di cambiare punto di vista anche su uno dei grandi postulati del vino, il passo è breve. È il 2010 quando Prà decide che tutte le sue bottiglie saranno tappate a vite, nonostante il parere negativo del Consorzio, che lo riteneva dispregiativo.

«Il tappo a vite supporta la longevità del vino, gli permette di evolvere correttamente e garantisce una chiusura perfetta – sottolinea Prà – sono queste solo alcune ragioni che sostengono la nostra scelta, una decisione maturata dopo tredici anni di osservazioni e degustazioni comparate di vecchie annate. Oggi siamo certi che il tappo a vite sia la scelta migliore per l’affinamento e la conservazione dei nostri vini, la risposta più forte al nostro desiderio di produrre vini buoni nel tempo, senza difetti ed eleganti».

Oltre alla longevità e alla garanzia dell’evoluzione in bottiglia, attraverso una micro-ossigenazione del vino senza alterazioni, l’azienda sostiene il tappo a vite anche per il suo essere rispettoso e attento nei confronti del cliente. «Comprare una bottiglia di Soave con il tappo a vite – conclude il viticoltore – significa non correre rischi ed essere certi di acquistare un vino che dipende dall’annata, e mai dal tappo. Inoltre, lavorando molto con i mercati esteri, il tappo a vite ci permette di reggere lo stress da trasporto, evitando tutti i problemi legati al posizionamento verticale o orizzontale e agli sbalzi di temperature tra un mezzo e l’altro».

Insomma, qui la prospettiva si ribalta: il sughero va bene per i vini di pronta beva, che non rischiano troppo sul lungo periodo sul fronte del “sentore di tappo” e dell’evoluzione. Per quelli da invecchiamento si sceglie la vite, che riesce a preservare meglio sentori e sapori: «Perché il nemico numero uno del vino è l’ossigeno» chiosa il vignaiolo.

E di sicuro il suo miglior amico è l’uomo in grado di dar vita a un progetto diverso, in un territorio non celebre, ma in grado da subito di convincerlo a fare meglio, ad andare oltre, a guardare un po’ più in là, fuori dalle rotte consuete e dagli schemi prestabiliti. Oggi, da Prà, sono in quindici, tantissimi giovani che si sono formati e che sono qui da anni, a far da spalla a una concretezza e a una lucidità di pensiero che si rivela, intatta e vibrante, in ogni calice che porta il suo nome.

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