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Pnrr, cronaca di un calvario annunciato

Che cosa emerge dalle ultime notizie relative al Pnrr. L’analisi di Giuseppe Liturri

Il comunicato di lunedì sera partito da Palazzo Chigi ha dato l’ufficialità ad uno scenario chiaro sin dal primo momento in cui il Pnrr vide la luce e fu inviato a Bruxelles a fine aprile 2021.

Sarebbe stato un calvario sempre più doloroso, semestre dopo semestre fino al 2026, di cui vi avevamo dato ampiamente conto. Altro che pioggia di miliardi. Solo una infernale concatenazione di scadenze, burocrazia ed obiettivi impossibili da conseguire, peraltro riferiti ad alcune spese di dubbia efficacia.

Chi aveva chiaro il percorso complessivo disegnato dalla Commissione con tutti i suoi 528 obiettivi e traguardi, sapeva che sarebbe stato solo questione di tempo per far arrivare al pettine i tanti, troppi, nodi irrisolvibili.

Ed ora ci siamo. Il comunicato serve a rendere ufficiale che, per la valutazione del “soddisfacente” conseguimento dei 55 obiettivi rendicontati dal governo Meloni a fine dicembre e relativi all’intero semestre (quindi per buona parte a carico del governo Draghi), la Commissione avrà bisogno di un altro mese. Tre i nodi che stanno rallentando la valutazione (preliminare) da parte dei tecnici di Bruxelles: la riforma delle concessioni portuali, le reti di teleriscaldamento, i Piani Urbani Integrati, per i quali la Commissione ha contestato l’ammissibilità degli interventi relativi al “Bosco dello Sport” di Venezia e allo “Stadio Artemio Franchi” di Firenze.

“I ritardi del Piano nazionale delle riforme sono incolmabili e non dipendono nemmeno dall’incapacità dei governi. È il sistema a non essere in grado di assorbire quel volume di investimenti. Se fossi in Giorgia Meloni, convocherei una conferenza stampa, annuncerei che l’Italia non ce la fa, e chiederei all’Europa o una dilazione dei tempi, o un dimezzamento dei fondi. Dei 209 miliardi previsti ne possiamo utilizzare forse cento”. Così riportava martedì 28 marzo La Stampa.

Ma non c’è nulla su cui recriminare. Appena si è passati dalla produzione di “carta” all’apertura, gestione e chiusura di cantieri è emerso che quel cronoprogramma imposto dalla Commissione è semplicemente inattuabile in molti casi, o attuabile al prezzo di corse furiose e un sistematico e pericoloso superamento delle procedure di controllo a tutela delle casse pubbliche (non dimentichiamo che si tratta sempre di debiti da rimborsare) e, più in generale, di tutela dei diritti dei terzi. La tanto vituperata burocrazia, nelle sue forme non patologiche, serve proprio a garantire i necessari presidi di tutela dell’interesse pubblico, finanze statali in primis.

All’improvviso, ci si è resi conto della realtà di un Paese che, dopo la doppia crisi del 2009-2011, è stato costretto ad un sostanziale dimezzamento dell’incidenza degli investimenti pubblici sul Pil, depotenziando fortemente le capacità progettuali. E che non può raddoppiare quella capacità di spesa con un colpo di bacchetta magica, dimenticando che nel frattempo gli uffici tecnici dei Comuni e delle Regioni sono stati svuotati. Solo perché un gruppo di burocrati di Bruxelles ha redatto un rigido cronoprogramma con cadenze semestrali che ricorda tanto i piani quinquennali dell’Urss di Breznev. Si possono dimezzare i tempi di scrittura di un decreto, ma un cantiere ha dei tempi incomprimibili e la capacità produttiva del settore delle costruzioni, ma anche del digitale, non raddoppia in pochi mesi e, forse, nemmeno anni.

Sarebbe stato un atto di hybris già 40 anni fa, figuriamoci oggi, quando negli ultimi 36 mesi abbiamo vissuto pandemia, crisi energetica e conseguente inflazione ed un sanguinoso conflitto nel cuore dell’Europa. Eventi che hanno ribaltato qualsiasi pianificazione. Uno strumento che avrebbe dovuto avere un forte impatto congiunturale – visto che era stato concepito per risollevare le economie provate dal lockdown – è stato caricato della missione impossibile di modellare a lungo termine le economie degli Stati membri in direzione della transizione ecologica e digitale. Tutto questo mentre raddoppiavano i costi dei materiali, proprio in conseguenza della corsa all’abbandono delle fonti fossili verso quelle rinnovabili e, per non annoiarsi, il conflitto russo-ucraino entrava in una fase ancora più drammatica e sanguinosa, determinando la rottura dei rapporti tra la UE e Mosca, uno dei primi tre suoi fornitori di prodotti energetici.

Una tempesta perfetta. Se a questo aggiungiamo che il Pnrr è stato messo in piedi in fretta e furia dal governo Draghi in meno di due mesi (insediamento a febbraio 2021 ed invio a Bruxelles il 30 aprile), perché il governo Conte 2 gli aveva lasciato poco più di uno scarno ed incompleto compitino che aveva fatto saltare sulla sedia i tecnici di Bruxelles, il museo dell’orrore è completo. In quel piano, per fare massa, sono stati infatti inseriti investimenti per circa 50 miliardi che erano già stati finanziati con il bilancio statale e che sarebbero stati comunque eseguiti (in gran parte investimenti di RFI), ma bisognava saturare ad ogni costo tutto il budget reso disponibile. Anche questo un incredibile atto di hybris, perché ci sarebbe stato tempo fino al 2023 per integrare il piano iniziale, alla luce delle sopravvenute necessità, come ha fatto la Spagna. Invece noi, diritti contro il muro a chiedere l’intero plafond disponibile di debiti (6,9% del PIL).

Dopo l’incasso dell’anticipo del 13% ad agosto 2021 e della prima e seconda rata, relative al secondo semestre 2021 e primo 2022, ci eravamo illusi che tutto filasse liscio. Ma gli obiettivi che condizionavano quelle rate erano tutti relativi a doverosi adempimenti normativi (snellimenti amministrativi, strutture organizzative, bandi di gara, ecc…), preparatori per l’esecuzione degli effettivi investimenti. Per tale motivo centrare quegli obiettivi è stato relativamente facile e, ciononostante, la rata del secondo semestre 2021 è stata incassata solo il 13 aprile e la rata del primo semestre 2022 l’8 novembre 2022.

Tuttavia, questi sono ancora tempi ragionevoli considerando ciò che ci attende al varco. Regolamento alla mano, la Commissione avrebbe a disposizione 2 mesi per la valutazione preliminare della richiesta di pagamento, dopo la quale dovrebbe attendere il parere vincolante del Comitato Economico Finanziario, da rendersi entro 30 giorni. Ma c’è un enorme “ma”. Poiché questo Comitato deve deliberare all’unanimità, qualora ci fosse anche un solo membro dissenziente, la questione deve essere addirittura portata all’esame del Consiglio Europeo. Un processo che non dovrebbe richiedere “di norma” più di tre mesi. Questa forca caudina è anche uno dei motivi per cui la Commissione deve essere molto oculata nella valutazione della richiesta di pagamento di uno Stato, per non trovarsi poi a gestire spaccature in seno al Comitato o, peggio, al Consiglio Europeo.

Senza voler scivolare nel complottismo, è oggettivamente un processo ad elevatissima discrezionalità in cui non possono non entrare valutazioni circa il colore politico del governo, che potrebbero portare ad applicare la legge per i nemici ed interpretarla per gli amici.

Qui non è questione di scendere dal carro e “mettersi alla stanga” a tirare accanto ai buoi. Non c’è stanga che tenga, quando i piedi affondano nel fango.

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