OZEGNA – Aiutare chi ha bisogno non è solo un dovere istituzionale, ma un dovere etico e morale, scritto nel cuore di ognuno di noi. Sono le parole pronunciate dal presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, per dire grazie ai sanitari e ai volontari della Protezione civile, che, rappresentando l’orgoglio piemontese e italiano nel mondo, sono volati in Turchia per aiutare una nazione duramente colpita dal terremoto. Tra i medici, infermieri che hanno fatto parte del team della maxiemergenza della Regione e prestato servizio specialmente nell’ospedale da campo allestito in un impianto sportivo vicino all’ospedale di Antiochia distrutto dal sisma, c’era Marta Guglielmetti, 29enne infermiera di Ozegna, che lavora all’ospedale San Giovanni Bosco di Torino.
Che esperienza è stata a livello professionale? Come ci si prepara a una missione del genere? «Professionalmente parlando è stata una bellissima esperienza. Ho avuto la fortuna di lavorare con colleghi meravigliosi, tutti molti diversi tra loro, ma tutti molto professionali. Ho avuto anche la fortuna di poter lavorare nel triage e nel pronto soccorso dell’ospedale, cosa che non avevo mai fatto in Italia. Professionalmente mi ha molto arricchito – spiega Marta Guglielmetti – Non credo ci sia un modo di prepararsi ad una missione del genere, si fanno i corsi di aggiornamento obbligatori e facoltativi. Quando si viene attivati dall’unità chirurgica della Maxi emergenza 118 si leggono i vari protocolli che vengono inviati, quindi una lista di cosa portarsi, una schema di come sarà l’ospedale, un po’ di nozioni se un gruppo è già partito e si parte per secondi. Ma nonostante si leggano e rileggano tutte queste cose non si è mai veramente pronti. Si ha voglia di partire, si è entusiasti ma un pochino di ansia ti accompagna fino all’arrivo. Almeno questo è successo a me».
E a livello umano che esperienza è stata? «A livello umano è stata l’esperienza più bella, pesante, triste, coinvolgente, drammatica della mia vita – racconta la 29enne di Ozegna – Sembra strano usare tutti questi termini insieme, ma è stato così. Sono contentissima di aver partecipato e lo rifarei domani. Tuttavia, per quanto è bello poter aiutare in certi momenti è anche difficile mentalmente: sai che stai facendo del bene, ma le loro storie ti colpiscono e ti fanno male».
Di cosa ti sei occupata in Turchia? Che situazione vi siete trovati di fronte appena arrivati? «In Turchia ero infermiera della tenda di degenza, la quale era divisi in tre zone. Una parte per gli uomini, una parte per le donne e una parte per le puerpere e i loro bambini – aggiunge Marta – La parte di tenda dove amavo di più stare era quella con mamme e bimbi. Siamo atterrati ad Adana, zona non colpita dal terremoto, abbiamo preso un pullman che in tre ore ci ha portato a Defne, dove è allestito l’ospedale da campo. Durante il tragitto in pullman, dopo circa un’oretta la visuale è tutta identica, case implose su se stesse, macerie, cimiteri di auto e tendopoli ovunque. Una visuale che ti fa gelare il sangue nelle vene. Avevo visto queste scene al tg, ma vederle dal vivo su delle aree così distese, beh, ti fa capire che siamo davvero nati nella parte “giusta” del mondo. Noi del secondo gruppo siamo stati dal 4 al 18 marzo. Giornalmente avevamo circa 250 accessi in triage. Essendo un ospedale a tutti gli effetti erano presenti chirurgi, ortopedici, ginecologi. Sono stati quindi eseguiti interventi di chirurgia, di ortopedia, bendaggi e gessature di arti, e innumerevoli nascite. Durante la missione totale sono nati 31 bambini, tutti sani e belli».
Il terremoto ha spezzato tante vite, ma altrettante ne avete salvate, soprattutto, bambini e giovani. C’è un momento, un ricordo che porterai sempre nel cuore? «Di momenti e di ricordi che porterò con me ne ho davvero innumerevoli – racconta l’infermiera canavesana – Uno che mi ha toccato particolarmente è stato il caso di una ragazza di 16 anni. È arrivata da noi poiché aveva tentato il suicidio ingerendo una notevole quantità di compresse. Era già stata in un altro ospedale e aveva subito una lavanda gastrica. Non c’era però posto per tenerla ed era stata mandata a “casa”. Il padre, non tranquillo, l’aveva portata da noi: aveva paura per la sua vita. È stata mandata nella mia tenda. Abbiamo iniziato a parlare, a capire cosa frullava per la testa di una ragazza di 16 anni, ma lei rimaneva in silenzio. Il padre ci ha raccontato che prima del terremoto era molto allegra, brava a scuola e piena di amici. Ci ha, poi, detto che durante il terremoto tutti gli amici ed alcuni familiari della ragazza erano rimasti sotto le macerie. Da quel momento lei aveva iniziato a non mangiare, a chiudersi in se stessa e ad avere crisi di panico. Ci siamo guardate, io e la mia collega. Ci siamo sentite così piccole. Non sapevamo più che dire. Questo perché davanti a certi racconti uno non sa proprio che dire. Abbiamo provato a rallegrare la ragazza, abbiamo parlato di altro. Ci ha raccontato che c’era un ragazzo che nel pomeriggio era stato a trovarla, che le piaceva molto e che nella serata sarebbe tornato. Così siamo andate nella tenda del dormitorio, abbiamo raccattato due trucchi che ci eravamo portate e abbiamo iniziato a “farla bella” per lui, per distrarla e per farla sorridere. E ci siamo riuscite. Lei, prima di essere dimessa, ci ha detto che se mai si fosse sposata con questo ragazzo ci avrebbe volute al matrimonio. Non abbiamo fatto nulla di importante, non le abbiamo ridato gli amici persi, però abbiamo ridato un sorriso. E per me questo è stato molto importante».
C’è un ringraziamento particolare che vuoi fare? «I miei ringraziamenti vanno al nostro Team Leader Nicola Tommasoni, un leader coretto, che ha saputo supportarci durante tutta la missione. Al nostro deputy Andrea Vermena. Alla protezione civile, che ha mantenuto in sicurezza il campo per tutta la missione, e a Fiorella la nostro super cuoca che ci ha viziati come una mamma».