Ci hanno tenuto a specificare che il pranzo al Colle era programmato ma chi può giurarlo, lei infatti ha improvvisamente annullato la visita a Udine per la campagna elettorale «per il protrarsi» del pranzo.
Comunque sia, se il capo dello Stato ti tiene a conversare per due ore è chiaro che qualcosa va chiarito: non esattamente una passeggiata, per la premier. La materia d’altronde non manca, e i due non hanno una consuetudine particolare, dunque i dossier si sono accumulati e con essi le incomprensioni (forse anche su Cutro, quando Meloni non fu entusiasta della visita solitaria di Sergio Mattarella mentre lei partiva per New Dehli).
Poi le preoccupazioni per le traversìe sul Pnrr hanno in un certo senso obbligato il Capo dello Stato, sempre vigile su questioni che s’intrecciano con la politica europea, a chiedere lumi alla presidente del Consiglio. Palazzo Chigi dice che è andato tutto benissimo, il Colle non ha commentato.
Di certo, il pranzo di ieri inevitabilmente suggerisce che il momento politico è molto particolare, difficile, con il governo in affanno su immigrazione e Pnrr e la squadra di Fratelli d’Italia che ogni giorno ne inventa una a costo di spaccare il Parlamento e il Paese, come è successo ieri con il nuovo caso-La Russa (non è improbabile, anche se non ci sono conferme, che Mattarella abbia esercitato una moral suasion su Meloni affinché cessino queste folli polemiche sull’antifascismo, a poche settimane dal 25 aprile).
Perché Ignazio l’ha fatta grossa davvero un’altra volta denigrando l’azione partigiana di via Rasella e possiamo solo immaginare cosa sia passato per la mente di Sergio Mattarella nel vedere il presidente del Senato (carica ormai messa in discussione anche da mezza assemblea di palazzo Madama, che potrebbe uscire dall’aula quando vi fa ingresso il “presidente”: è un proposta che nella chat dei senatori del Partito democratico è tornata molte volte) giudicare come vigliacca l’azione dei gappisti romani che attaccarono «una banda musicale di pensionati».
Qui siamo oltre il revisionismo storico. Il problema è che Ignazio La Russa è una specie di superpresidente di Fratelli d’Italia, il suo legame col partito non si è mai nemmeno formalmente allentato, anzi, Ignazio si picca di essere un gran consigliere di Giorgia.
È difficile non pensare che le uscite su via Rasella di Meloni, Fabio Rampelli e lo stesso La Russa (c’è stato anche un pregevole «ma che ci frega del fascismo» di Italo Bocchino, redivivo manganellatore televisivo) siano meri incidenti né tantomeno discussioni storiche ma configurino una velleità revisionista che ben si sposa con gli attacchi ai diritti civili, con il mito rimasticato dell’“italianità” e con l’autoreferenzialità che esclude ogni confronto (la passerella di Meloni al congresso della Cgil è stata appunto una passerella), il tutto nel quadro del tentativo scoperto di prendersi il Paese.
Se questo è il contesto generale, la conseguenza non può che essere quella di un baratro tra la destra al governo e le opposizioni. La cosa non è il massimo per il Paese ma ci sono pochi dubbi sul fatto che la responsabilità della spaccatura vada ascritta al partito della premier, tanto è vero che una Meloni in evidente difficoltà su una cosa enorme come l’attuazione del Pnrr tutto dice tranne l’unica cosa che andrebbe detta: siamo in una situazione molto seria, apriamo un confronto in Parlamento, creiamo un clima costruttivo tra maggioranza e opposizione. Macché. A Palazzo Chigi si giudica la richiesta di un dibattito parlamentare avanzata dal Partito democratico come «una follia», come se i problemi squadernati dalla Corte dei Conti sulle difficoltà, e anche gli errori, che l’attuazione del Pnrr incontra siano polemiche giornalistiche e non tali, invece, da configurare un’emergenza nazionale che sta tutta sulle spalle del governo.
Di questo il Presidente della Repubblica è preoccupato, insieme al fatto che il comportamento seguito da Meloni in Europa non è esattamente quello più idoneo a trovare le alleanze giuste, tanto che l’Italia esce ogni volta da Bruxelles o ignorata o battuta, e gli stessi attacchi a Mario Draghi al Quirinale non devono essere piaciuti, essendo l’ex premier l’unico che in Europa riusciva ad essere ascoltato.
Stando così le cose, che cosa dovrebbe fare Elly Schlein, se non protestare praticamente su tutto, dai diritti negati alle nuove regole sugli appalti, dalle non-politiche sull’immigrazione al revisionismo sul fascismo appunto alla cattiva gestione del Pnrr?
Anche il Terzo Polo dovrebbe un po’ rifare i conti e prendere atto che con questa destra meloniana c’è poco da trattare. Poi è ovvio che quando il governo ne imbrocca una gli va riconosciuto: ma non sta accadendo mai.
E dunque – lo abbiamo già scritto – forse occorrerebbe giocare di più “da questa parte”, quella del centrosinistra o come lo si vuole chiamare, superando un’equidistanza che ormai si fa fatica a spiegare.
Poi spuntano a sorpresa le avances di Giuseppe Conte. Il più estremista, il più demagogo, il più agitato ha offerto sul Pnrr una «mano tesa» al governo. Lo fa probabilmente per tre ragioni.
La prima è che per il capo del Movimento 5 stelle il Pnrr è un nervo scoperto per la ragione che ha detto con semplicità Carlo Bonomi rievocando il grottesco incontro di Villa Pamphili organizzato dall’allora avvocato-premier: «Noi immaginavamo un Piano che si concentrasse a rafforzare il potenziale di crescita del Paese. Ci siamo invece trovati di fronte a una serie di interventi a pioggia», per cui oggi Conte fa il paladino di questa «occasione da non sprecare». Ridicolo.
Poi c’è il fatto che lo stratega del populismo vuole differenziarsi dal Partito democratico su tutto e quindi anche su questo: Schlein non parla con il governo ed ecco che lui gli offre la mano.
Terzo, forse c’è sotto una specie di inciucio tra il nuovo Robespierre, l’Incorruttibile di Volturara Appula, e Meloni: qualcosa in questo senso si muove in Rai, chissà se nella poderosa partita delle nomine delle prossime settimane qualcosina non arrivi anche all’avvocato. Ce n’è abbastanza perché Sergio Mattarella osservi questo panorama dissestato con legittima preoccupazione.