Dai feed pieni di foto dalle tinte color pastello alle stories nelle quali vengono esibiti i prodotti ricevuti da brand e marchi di lusso, fino ai viaggi verso mete esotiche totalmente gratuiti. Il lavoro dell’influencer sembra essere tutto rose e fiori: redditizio, facile, poco rischioso e che permette di accedere a esperienze esclusive.
Secondo il Report Brand & Marketer dell’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing (Onim), il fenomeno dell’influencer economy nazionale ha visto una rapida ascesa, arrivando a registrare oltre un miliardo di euro. Per quanto riguarda le attività legate prettamente al marketing social, invece, sono stati raggiunti i trecento milioni euro.
Ormai il ruolo dei creatori di contenuti digitali, i creator, è diventato essenziale e funzionale all’esistenza di gran parte delle piattaforme social mainstream, che in parte hanno contribuito a trasformare i rapporti interpersonali proponendo un nuovo modello relazionale: quello virtuale.
Anche per questi motivi, la professione dell’influencer viene guardata con diffidenza ed è spesso oggetto di aspre critiche e polemiche, che portano molti a definire i creator digitali come persone che «non lavorano veramente», principalmente perché la loro attività non è ritenuta né abbastanza impegnativa, né particolarmente utile, alimentando l’assunto del virtuale-non-reale.
Di reale, però, c’è il guadagno che permette ai creator digitali di sostenersi economicamente e pagare l’affitto, ad esempio. Dalla monetizzazione dei contenuti, alle collaborazioni con i brand, il guadagno degli influencer è totalmente dipendente dalle piattaforme su cui vengono postati i contenuti. E se tutto questo sembra evanescente, perché realizzato esclusivamente in spazi virtuali, di tangibile ci sono i rischi legati a questo tipo di lavoro, soprattutto per chi non ha un piano B.
Di questo fenomeno si è occupata Emily Hund, ricercatrice e autrice del libro “The Influencer Industry: The Quest for Authenticity on Social Media”. Nella sua opera, l’esperta sottolinea l’importanza per i creator di «riconoscersi come lavoratori culturali e di organizzarsi di conseguenza».
Lavorare su e con i social, insomma, non è così facile e remunerativo come sembra: gli algoritmi delle piattaforme cambiano repentinamente e sono spesso difficili da capire, costringendo gli utenti non solo a produrre contenuti che si adattino ai nuovi requisiti per stare online, ma che reggano anche la competizione digitale, rendendo il lavoro del creator non solo imprevedibile, ma anche impervio.
L’influencer economy, infatti, richiede abilità di marketing, di produzione di contenuti originali adatti alle sponsorizzazioni per i brand e di vendita di prodotti che però non devono snaturare il profilo, rimanendo coerenti con l’identità digitale e i valori promossi dall’utente, stando anche attenti a mantenere un rapporto di fiducia con i propri follower. «I rischi del mestiere sono totalmente sulle spalle dei singoli influencer – scrive Hund -. È un lavoro autopromozionale, in cui è richiesto essere sempre operativi; è orientato verso pagamenti incerti e non è impermeabile alle diseguaglianze di genere, etnia e classe».
Di tutele, infatti, sembra non ce ne siano molte e le difficoltà riscontrate nello svolgere questa professione sono condivise dalla maggior parte di coloro che con i social ci vivono e ci pagano l’affitto. In caso di problemi, infatti, l’unico modo per ricevere supporto è rivolgersi a una mail di assistenza dell’applicazione stessa, che raramente offre delle risposte tempestive alle domande degli utenti, abbandonando i creator nell’incertezza.
Kaitlyn Tiffany, firma dell’Atlantic, parla di una «crisi esistenziale» degli influencer nell’articolo “The Influencer Industry Is Having an Existential Crisis”. Secondo l’autrice, alcuni creator stanno provando a organizzarsi, cercando di costruire una sorta di «solidarietà digitale» tra loro, attraverso la quale poter rivendicare il bisogno di tutele anche nel mondo del lavoro online.
Proprio per rispondere a queste criticità, in Italia, è nata nel 2018 l’Associazione Italiana Influencer (Assoinfluencer), il primo vero tentativo di tutela della professione dei creator.
Una delle prime istanze portate all’attenzione delle istituzioni da Assoinfluencer è la necessità della creazione di un Codice Ateco apposito, attraverso cui l’Istat classifica le attività economiche per finalità statistiche. In questo modo la professione verrebbe a tutti gli effetti riconosciuta e di conseguenza tutelata dallo Stato in caso di controversie.
L’Associazione, inoltre, si prodiga nel promuovere la regolamentazione di un impiego nato in tempi relativamente recenti e che ha rappresentato un tentativo di sopravvivere all’incertezza innescata dalla recessione del 2008, periodo segnato da una grave precarietà economica e da uno sconvolgimento istituzionale che ha segnato l’inizio dell’era social.
In Italia, i professionisti attivi nel settore dell’influencer marketing sono oltre trecentocinquantamila e nel 2022 gli investimenti in questo settore hanno raggiunto oltre duecentonovanta milioni di euro. «L’associazione di categoria ha come scopo primario quello di tutelare e promuovere i lavoratori e le lavoratrici che va a rappresentare, quindi i cosiddetti content creator o operatori digitali protagonisti della creator economy presenti sul mercato», racconta a Linkiesta Clemente Rovere, Segretario Generale di Assoinfluencer.
Tra i servizi che l’associazione offre, si trovano per esempio attività di assistenza fiscale e legale, aspetti fondamentali e promossi in prima linea dall’avvocato e Presidente dell’Associazione Jacopo Ierussi. Oltre a questi, è presente inoltre un sistema di rete, attraverso cui vengono messe in contatto le agenzie che rappresentano i creator con le potenziali opportunità di attività professionale. «Un servizio fondamentale che offriamo è anche quello della rappresentanza istituzionale. Siamo stati convocati in Parlamento in Commissione Lavoro per rappresentare le istanze di una categoria che, allo stato attuale, non ha ancora riconoscimenti professionali», conclude Rovere.