Alla fine, dopo che ciclicamente se ne dava per imminente la scomparsa a seguito di annunciati (e puntualmente smentiti) peggioramenti delle condizioni di salute, Benedetto XVI è davvero morto. Il 265° Papa della Chiesa cattolica, emerito dal 28 febbraio 2013 a diciassette giorni dall’inaspettata Declaratio latina con cui aveva comunicato le sue dimissioni al Collegio cardinalizio, è infatti spirato alle 9.34 nell’ex monastero vaticano Mater Ecclesiae, dove risiedeva da quell’epocale rinuncia. Si era in realtà preparati a una tale notizia, dopo che Francesco, al termine dell’Udienza generale del 28 dicembre, aveva chiesto «una preghiera speciale» per il predecessore «molto ammalato, chiedendo al Signore che lo consoli, che lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa, fino alla fine», per poi recarsi subito dopo al suo capezzale.
Sempre lucido e vigile, come costantemente ribadito in questi giorni dal direttore della Sala stampa della Santa Sede Matteo Bruni, Joseph Ratzinger ha percorso «l’ultimo tratto della vita in modo cosciente», morendo «con una propria intenzione». Queste parole, tratte da Eschatologie, Tod und ewiges Leben, una delle sue opere più profonde edita nel 1977 – lo stesso anno della nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga e della creazione cardinalizia –, l’antico professore di Dogmatica e di Storia dei dogmi presso l’Università di Ratisbona le ha inconsapevolmente inverate nel momento della fine. Il suo è stato «l’atteggiamento del cristiano credente di fronte alla morte», che da secoli invoca nelle Litanie dei Santi: «A subitanea morte, libera nos, Domine. Liberaci, o Signore, da una morte improvvisa. Essere portato via all’improvviso – così ancora il futuro pontefice nel citato libro – senza essersi potuto preparare, senza sentirsi pronto, è considerato dal cristiano come il massimo dei pericoli da cui vorrebbe essere preservato».
Se n’è andato così all’età di 95 anni – li aveva compiuti il 16 aprile – una delle figure più complesse e forse più contraddittorie della Chiesa postconciliare tra incondizionati osanna, elevati soprattutto da conservatori d’ogni latitudine, e spietati crucifige, gridati per lo più in rete o sui social dai soliti orecchianti. Sotto quest’ultimo rispetto sono state tali l’acredine e la volgarità, che hanno accompagnato la rimessa in circolo di vecchie dicerie sul suo conto, da indurre uno storico mai tenero con lui come Alberto Melloni a parlare di «infamie» propalate da «un raduno di trogloditi puri e di cretini acculturati che si sentono anticlericali solo perché sanno vomitare». A fare da sfondo le complottistiche narrazioni di un Benedetto XVI, spirato in uno stato d’inumano isolamento con il suo segretario particolare, l’arcivescovo Georg Gänswein, e le quattro fidate Memores Domini. Per non parlare poi delle mai sopite farneticazioni sullo stesso, non già emerito ma unico vero Papa in ragione di una rinuncia al ministerium ma non al munus petrino, di differimento della stessa meramente annunciato e di marchiani errori di latino, da lui inseriti nella citata Declaratio per intenzionalmente invalidare le dimissioni.
Ma come più volte precisato dal cardinale teologo Gerhard Ludwig Müller, amico di vecchia data di Benedetto XVI, suo successore – dopo il settennato d’un altro ratzingeriano quale William Joseph Levada – alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede, autorevole capofila della minoranza cardinalizia critica verso Bergoglio, che l’ha sollevato, forse troppo corrivamente, dall’incarico di prefetto dell’ex Sant’Uffizio all’età di 70 anni, «c’è legittimamente un solo Papa e si chiama Francesco. Chiunque sia stato papa, vivo o morto, non lo è più, anche se ha diritto a tutta la gratitudine e alla venerazione personale».
Affermazione di grande peso – da leggere fra l’altro nell’ambito dell’ampia e rigorosa riflessione sull’infondata tesi della doppia leadership nella Chiesa cattolica in quanto quelli trascorsi dall’elezione di Bergoglio alla morte del predecessore emerito sono stati «nove anni di convivenza di un solo papa e del suo predecessore come papa emerito» –, che, se rivela da una parte la piena fedeltà e il «genuino amore» del porporato a Francesco come «padre della cristianità», ne rivela dall’altra l’estrema vulnerabilità a lasciarsi facilmente irretire da adulanti alfieri della “sana dottrina”. Ma anche a comprendere – lo rilevava lo scorso anno la teologa e giornalista Dawn Eden Goldstein – fino a che punto movimenti teocon come Tradition, Family, Property (TFP) strumentalizzino lui e i vari Brandmüller, Burke, Chaput, Sarah «contro la cosiddetta Chiesa bergogliana».
Anche in questo Müller e gli altri ratzingeriani di ferro sono simili al loro amato modello Benedetto XVI, alla cui qual certa cedevolezza nei riguardi di melliflui difensori della tradizione e scarsa conoscenza dell’animo umano con naturale timidezza sono da ascrivere in ultima analisi la manifesta incapacità a guidare ancora oltre la barca di Pietro, il fallimento del suo modello curiale, la debolezza nell’opporsi a un immagine di sé quale punto di riferimento della variegata galassia di sovranisti e identitaristi cristiani come di pro life e pro family. Ne è una plastica riprova lo slogan «Il mio Papa è Benedetto» che, stampato in voluta contrapposizione all’immagine di Francesco sulle t-shirt dei Giovani Padani, fu urlato nel 2016 sul pratone di Pontida da un Salvini, allora violento fustigatore di Bergoglio, neghittoso ai suoi occhi nel «difendere la civiltà occidentale e la libertà» e pertanto bisognoso d’ascoltare «di più Ratzinger», additatogli a modello per la solerzia «nel chiarire i rischi dell’Islam come dimostra il discorso di Ratisbona».