Esattamente un anno fa, il 9 marzo 2022, un politico italiano rimediava una figuraccia mondiale in una cittadina polacca, Przemys, al confine con l’Ucraina, dove si era recato per fare un po’ di propaganda a buon mercato ma era stato respinto sdegnosamente dal sindaco che gli smontò il giocattolino retorico ricordandogli la sua amicizia con Vladimir Putin. Quel politico era Matteo Salvini. Aveva già imboccato una parabola discendente che lo avrebbe poi portato alle politiche di settembre a racimolare un otto per cento piuttosto triste a paragone di precedenti successi (addirittura il trentaquattro per cento alle europee del 2019).
Ma oggi il capo leghista è in una condizione ancora peggiore. A parte la totale irrilevanza della sua presenza al ministero delle Infrastrutture (siamo ai livelli di Danilo Toninelli), sta crollando il tetto di bugie e grossolanità che gli ha garantito sin qui sonni tranquilli nella bottega de potere.
La strage di Cutro ha cambiato ulteriormente e definitivamente la percezione dell’opinione pubblica circa la questione dell’immigrazione, il suo cavallo di battaglia. Le responsabilità dello Stato per la morte di settantadue persone hanno aperto con una forza mai vista prima la piaga della colpa che tutti i cittadini di questo Stato provano dinanzi a quelle bare (quelle bare con cui il governo sta pasticciando, ultimo oltraggio alla civiltà).
Lo Stato, tramite il governo, non ha mostrato il necessario grado di compassione né avvicinato di un millimetro la verità su quanto è accaduto, e soprattutto su quanto non è accaduto, nel mare calabrese.
Ma la gente ha capito una cosa: le persone vanno salvate, altro che «stiano a casa loro», e chi se ne frega dei decreti e della catene di comando, dei commi e delle gerarchie: è per questo che nella coscienza del popolo prevale la solidarietà laddove fino a qualche tempo fa dominava l’egoismo.
Oggi chi griderebbe a squarciagola lo slogan salviniano «prima gli italiani» che pure è risuonato per anni nelle periferie delle nostre città? Accolti migliaia e migliaia di donne, uomini, vecchi e bambini dalla martoriata Ucraina, gli italiani hanno capito meglio che aprire le porte si può fare, si deve fare.
Secondo le regole, i disperati di tutto il mondo possono venire qui, migranti che scappano dalla guerra ma anche quelli che fuggono dai disastri ambientali (lo ha chiarito bene la giurista Vitalba Azzollini su Domani), dalle malattie, dalla fame, e questo è quanto. Dalle balzane idee di blocchi navali e muri da erigere il dibattito si sta spostando su “come” accogliere chi ne ha diritto, come salvare da morte sicura chi è in mare verso le nostre coste e come aiutare a darsi una formazione ai migranti che vogliono lavorare – ora tutti dicono a voce alta quello che qualunque vicino di casa sa da tempo, che gli immigrati sono decisivi per le nostre aziende, per i nostri anziani, per i nostri malati.
È la fine del salvinismo come ideologia, cioè marxianamente come falsa coscienza. È il crollo di un armamentario politico fondato sull’opposizione amico-nemico in base all’etnia, al colore della pelle, in una parola sul razzismo. È Matteo Salvini (e chi lo ha coperto, come il suo ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e la sua attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni) il responsabile della politica dei «dàgli all’immigrato», dei respingimenti, della presunta «salvaguardia delle nostre coste».
Ora che il vento sta cambiando Meloni certo non può mollare ma nemmeno sorreggere il vicepremier leghista e il suo amico Matteo Piantedosi che barcollano sotto il peso della storia.
L’unità della maggioranza è solo di facciata, e non sarà una inutile passerella del governo a Cutro a fargli recuperare la stima dei calabresi e degli italiani tutti, né basterà indurire le pene per gli scafisti – fosse questo il problema – per uscire dal pozzo nero in cui il governo Meloni-Salvini è caduto. Il Paese ha visto e ha capito.