L’invasione dell’Ucraina non va come Vladimir Putin aveva programmato e sperato, la politica zero-Covid di Xi Jinping mostra crepe che forse non si potranno riparare, la brutalità della repressione nell’Iran dell’Ayatollah Ali Khamenei ha attirato gli occhi di tutto il mondo. È stato un anno difficile per le autocrazie di Russia, Cina e Iran, che si affacciano al 2023 vacillando, perlopiù per ferite autoinflitte, di fronte a scenari ostili come mai si erano mai trovati prima.
Questi momenti di flessione non saranno necessariamente prodromici a una rivoluzione, a una svolta democratica o a trasformazioni radicali e definitive in quei Paesi – al momento non sembrano le opzioni più probabili, forse nemmeno possibili nel breve termine. Di fronte alle rispettive difficoltà, ognuno con le sue specifiche e i suoi problemi, Mosca, Pechino e Teheran reagiranno alle proteste e alle débâcle con nuove repressioni, con nuove strette che al massimo potranno bilanciare delle concessioni, più o meno concrete, più o meno di facciata.
Nell’ultimo decennio i regimi autoritari hanno potuto e saputo minare la stabilità delle democrazie liberali – e in generale in tutti i continenti –, penetrando nelle istituzioni, trovando sostegno nell’opinione pubblica, formando aspiranti epigoni. Se l’Iran ha avuto un protagonismo soprattutto regionale in Medio Oriente, Russia e Cina sono state l’avanguardia che ha ispirato un’ondata illiberale e antidemocratica capace di cancellare le conquiste civili e sociali in Myanmar, in Ungheria, a El Salvador, in Tunisia.
La pandemia, almeno in un primo momento, sembrava corroborare la tesi della superiorità del modello autoritario, apparentemente impermeabile alle difficoltà della crisi sanitaria, poi sfociata in crisi economica, energetica, degli approvvigionamenti di materie prime.
A febbraio 2021, a circa un anno dai primi lockdown generalizzati visti quasi in tutto il mondo, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden aveva parlato alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza descrivendo un punto di flessione per le democrazie liberali, in un mondo minacciato «dagli abusi economici della Cina», dal pericolo militare della Russia (mancava ancora un anno all’invasione dell’Ucraina, ndr), delle «attività destabilizzanti dell’Iran in Medio Oriente».
Sono passati meno di due anni da quel discorso, ma sembra già cambiato tutto: il 2022 ha dato al mondo una prospettiva diversa. All’epoca Biden si era appena insediato alla Casa Bianca, e aveva preso il posto che per quattro anni era stato di Donald Trump; oggi si avvia verso il suo terzo anno da presidente, e ha l’opportunità politica di dimostrare che il fronte democratico internazionale ha saputo risollevarsi e ha retto meglio del modello autoritario di Cina e Russia (che invece mostra evidenti segni di debolezza).
Lo si legge nei numeri della guerra sconsiderata di Putin: un’invasione criminale che in Ucraina ha provocato la morte di 6.700 civili – secondo l’Onu –, ha spinto più di un milione di russi a fuggire dal loro Paese, ha frenato l’economia russa, ha mostrato le debolezze di un esercito che si è rivelato poco addestrato, poco disciplinato e privo di organizzazione.
Lo si legge anche negli errori di Pechino, che ha sovrastimato l’efficacia a lungo termine della politica zero-Covid e ora si trova a dover fronteggiare proteste su larga scala, un movimento spontaneo e decentralizzato difficile da frenare: è la sfida più ardua dell’era di Xi Jinping e mostra come qualcosa si sia rotto nel patto sociale tra la Cina e i suoi abitanti («meno diritti politici, più benessere economico»). Le proteste in Iran nascono da presupposti e condizioni profondamente diverse da quelle cinesi, ma anche in questo caso i cittadini contestano i modi di un regime che fa della repressione e della corruzione la sua cifra, ed è visto dalla popolazione come un nemico, un muro da abbattere.
A ottobre, Francis Fukuyama aveva ripreso sull’Atlantic la sua teoria della “fine della storia”, scrivendo che gli Stati autoritari hanno mostrato soprattutto due tipi di punti deboli: in primo luogo, la concentrazione del potere nelle mani di un unico leader al vertice garantisce un processo decisionale di bassa qualità e nel tempo produrrà conseguenze davvero catastrofiche. In secondo luogo, l’assenza di discussioni e dibattiti pubblici negli Stati autoritari significa che il sostegno del leader è superficiale e può erodersi in un attimo.
Ma la democrazia liberale non può limitarsi ad aspettare che questi regimi rivelino ulteriori aspetti delle loro fragilità. «Gli Stati Uniti e i loro partner globali», ha scritto Frederick Kempe in un articolo pubblicato sull’Atlantic Council, «dovrebbero sfruttare il momento per indirizzare la competizione tra democratici e despoti che definirà l’ordine post Guerra Fredda: il 2023 è un’opportunità per segnare guadagni duraturi».
L’invasione dell’Ucraina può essere d’insegnamento: c’è una dittatura che cerca di schiacciare uno Stato vicino, libero e indipendente, e la resistenza di Kyjiv al revisionismo russo – che è prima di tutto una lotta per la sopravvivenza – espone tutte le debolezze di uno Stato apparentemente troppo più grande, più forte, più armato e dimostra che il futuro può essere diverso, migliore, libero. Così, con il 2022 che volge al termine, le democrazie liberali possono fare fronte comune e lavorare insieme per modellare il loro futuro, per creare un mondo più sicuro, prospero e giusto.