Dentro la Grande Muraglia, la Cina è alle prese con un difficile e pericoloso cambio di percorso sulla sua strategia anti Covid. Fuori dalla Grande Muraglia si moltiplicano e rinfocolano invece diverse sfide che rischiano di produrre scosse telluriche in grado di propagarsi dalle periferie dell’impero. Tra i mari e le vette dell’Himalaya, le dispute territoriali in cui è coinvolta Pechino sono tante e di difficile soluzione. Anzi, la guerra in Ucraina e l’amicizia (presunta) «senza limiti» con la Russia stanno riattizzando micce che per qualche tempo si era riusciti a tenere spente. Un effetto domino che porta i Paesi asiatici ad armarsi. Con effetti anche sulle relazioni con l’Occidente.
Gli scontri al confine con l’India
Se si pensa a un possibile secondo fronte asiatico, il primo luogo che viene in mente è Taiwan. Ancora di più dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei dello scorso agosto e le manovre militari senza precedenti operate dall’Esercito popolare di liberazione. In tanti ritengono invece i rapporti tra Cina e India come l’elemento fondamentale per le future dinamiche asiatiche. E su questo fronte sono arrivati segnali negativi nei giorni scorsi. Il fragile equilibrio lungo l’enorme confine conteso sembra di nuovo sul punto di spezzarsi. Le truppe delle due parti si sono affrontate venerdì scorso a Tawang, nello Stato indiano nord-orientale dell’Arunachal Pradesh, che la Cina rivendica come parte del Tibet nonostante le obiezioni di Nuova Delhi. Gli scontri hanno provocato il ferimento di trentaquattro soldati indiani e di quasi quaranta cinesi. Si è trattato del primo scontro di rilievo lungo gli oltre duemila chilometri di confine da quando, a metà del 2020, sono scoppiati combattimenti corpo a corpo nella valle di Galwan, nel Ladakh orientale. Quel confronto causò la morte di venti soldati indiani e quattro cinesi, diventando così la prima battaglia mortale tra i vicini in quarantacinque anni.
La calma apparente degli ultimi due anni ha lasciato il posto a nuove tensioni negli scorsi mesi. Il confronto tra le due parti sarebbe in corso già dall’inizio di ottobre, quando Pechino ha raddoppiato le sue truppe lungo il suo lato della linea di controllo. La mossa sarebbe stata motivata dall’annuncio, arrivato lo scorso agosto, di esercitazioni militari congiunte tra India e Stati Uniti a circa una cinquantina di chilometri dal confine conteso.
In molti temono che in futuro la tensione possa deflagrare visti i molteplici interessi in gioco, a partire dalla ricchezza di risorse idriche della zona contesa e dalla successione del Dalai Lama. Il leader religioso risiede dagli anni Cinquanta nell’Himachal Pradesh, stato indiano nei pressi del confine. Sia il governo tibetano in esilio sia il governo cinese si arrogano il diritto di scegliere il successore. Nuova Delhi, che punta a sostituirsi almeno in parte alla Cina come nuova «fabbrica del mondo», forte anche dello storico sorpasso demografico che dovrebbe avvenire nel 2023, sembra intenzionata a sostenere le rivendicazioni tibetane. Col rischio che le frizioni si facciano ancora più forti nel prossimo futuro.
Le tensioni col Giappone
Se sul fronte indiano la Cina spera ancora di ricomporre diplomaticamente gli screzi, forte di una postura diplomatica ambigua da parte di Nuova Delhi, sul mar Cinese orientale sa che il Giappone è ormai completamente allineato agli Stati Uniti. La pandemia e la guerra in Ucraina hanno accelerato la già chiara tendenza giapponese al riarmo. Pechino non ha fatto nulla per far sentire il grande vicino orientale al sicuro. Quattro dei missili che lo scorso agosto sono stati lanciati sopra Taiwan sono caduti nelle acque della zona economica speciale giapponese (non riconosciuta dalla Cina): avvertimento chiaro a non immischiarsi sulla situazione dello Stretto, che invece Tokyo ritiene una priorità della propria sicurezza nazionale. Nel corso del 2022 è accaduto anche sempre più spesso che navi e jet militari cinesi e russi si muovessero insieme nei pressi dell’arcipelago giapponese o attraversassero i suoi stretti strategici, magari in concomitanza di appuntamenti multilaterali come il vertice del Quad dello scorso maggio, al quale ha presenziato anche Joe Biden.
Nelle scorse settimane la Russia ha annunciato lo schieramento di un sistema missilistico su un’isola delle Curili, arcipelago controllato da Mosca e rivendicato nella sua parte meridionale dal Giappone. Se ci si aggiungono le costanti manovre cinesi intorno alle isole contese Senkaku/Diaoyu e i missili lanciati sempre più spesso dalla Corea del Nord, i fronti aperti per Tokyo si moltiplicano. Non a caso, il governo nipponico ha appena approvato una nuova strategia di difesa che prevede un raddoppiamento della spesa militare al due per cento del Pil e fornirà capacità di contrattacco verso basi militari nemiche. Una novità, visto che per ora la dottrina giapponese era fondata sul principio di autodifesa.
Contestato da molti come un ritorno al militarismo e il superamento de facto della costituzione pacifista imposta dagli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, il testo giustifica le disposizioni definendole «minime misure necessarie di autodifesa». Saranno acquistati missili in grado di essere lanciati da oltre il raggio d’azione del fuoco nemico, estendendo la gittata dei missili guidati terra-nave delle Forze di autodifesa, e per acquistare missili da crociera Tomahawk di fabbricazione statunitense con una gittata di circa 1.600 chilometri, dotando di fatto il Giappone delle capacità di contrattacco.
Da parte cinese la mossa è stata molto criticata ma per i giapponesi la guerra in Ucraina ha fatto apparire molto più possibile un’invasione cinese di Taiwan, aumentando la preoccupazione dell’opinione pubblica sulla preparazione militare del Giappone in caso di conflitto regionale.
Taiwan e il mar Cinese meridionale
D’altronde, nonostante l’attenzione su quanto accade sullo Stretto di Taiwan si sia in parte affievolita da parte dei media internazionali, le manovre continuano. Martedì scorso Pechino ha inviato un numero record di diciotto bombardieri a capacità nucleare nella zona di identificazione della difesa aerea taiwanese. I passaggi oltre la linea mediana, il confine non ufficiale ma ampiamente rispettato da Pechino fino all’agosto scorso, sono operati ormai su base quotidiana. Le tensioni militari si sommano a quelle commerciali, con la Cina che ha appena bloccato le importazioni di una serie di alimenti e bevande alcoliche, tra cui il noto Kaoliang, un liquore di sorgo preparato sul mini arcipelago di Kinmen (ex avamposto militare a meno di cinque chilometri di distanza dalla città cinese di Xiamen). Si tratta di un prodotto a forte tasso simbolico, visto che è stato anche bevuto da Xi Jinping e l’ex presidente taiwanese Ma Ying-jeou nello storico vertice di Singapore del 2015, l’unico incontro di sempre tra i leader delle due sponde.
Taiwan, oltre le considerazioni storiche e retoriche, costituisce la porta d’accesso per il Pacifico e il mar Cinese meridionale, dove Washington ha mostrato di voler sostenere tutti coloro che hanno dispute aperte con Pechino. A partire dalle Filippine, che con il presidente Ferdinand Marcos Jr. sembrano aver accantonato la linea filo cinese di Rodrigo Duterte tornando a rafforzare i legami in materia di difesa con gli Stati Uniti. Come Pelosi è stata a Taipei, anche Kamala Harris ha dato un segnale forte visitando a novembre Palawan, la provincia più vicina alle acque contese tra Manila e Pechino. E Washington sembra ora vicina a concludere un accordo di forniture militari persino col Vietnam, ex acerrimo rivale dove governa ancora un Partito comunista che ha forte dialogo commerciale e politico con quello cinese ma anche forti tensioni sul fronte territoriale.
Negli ultimi dieci anni, Hanoi ha consistentemente ampliato l’estensione degli isolotti contesi che controlla nel mar Cinese meridionale. Attraverso lavori di bonifica e dragaggio sono stati creati circa centosettanta ettari di nuovi territori, anch’essi al centro delle tensioni che si rinfocolano all’esterno della Grande Muraglia.