Il live
Antonio Lamorte — 7 Dicembre 2022
A ognuno di quelli che li avevano visti, e cantati e ballati, nei club, nei centri sociali, in strada, nelle piazzole delle prostitute, dalle Dolomiti all’Oceania, in localacci e festival, doveva mancare un teatro. Al Duse di Bologna gli Zen Circus hanno montato il loro tendone il 6 dicembre e messo su il primo dei due spettacoli di farewell dal loro popolo, una despedida che si concluderà il 22 dicembre al Tuscany Hall di Firenze: si fermeranno per un po’ i folk punk rockers di Pisa dopo due anni di concerti e dopo due dischi (L’ultima casa accogliente e Cari fottutissimi amici) in neanche tre anni. Gli ultimi fuochi nella loro dimensione più autentica, quella live.
28 anni di concerti in scuole occupate (il primo: vestiti da donne), Arezzo Wave, centri sociali, performance buskers, appuntamenti a Villa Inferno dove tengono la loro festa personale ogni due anni, Sziget, vecchi transit scalcinati e suicidi alimentari, Miami, fino alla fine del mondo in Tasmania al Mona Foma Festival diretto da quel mito di Brian Ritchie dei Violent Femmes che li invitò e in un paio di mosse provvidenziali salvò la carriera di questa specie di famiglia punk disfunzionale.
Con Bologna una relazione tutta a sé: nel 2019 ci avevano anche festeggiano all’Estragon i dieci anni di Andate tutti affanculo, un album che non c’entrava niente con i grillini e che segnava un prima e dopo la loro carriera, il primo interamente in italiano. Neorealismo e ironia, nichilismo e Monicelli. Al loro romanzo di formazione da folk punk rockers sono andati via via aggiungendo, senza perdere l’integrità, la vocazione, la purezza dell’indie alternativo che si è fatto mainstream. Non scrivevano neanche in inglese agli inizi e sono finiti anche loro al karaoke: quando Andrea Appino ha sbagliato o saltato qualche parola è stato il pubblico ad anticiparlo e correggerlo al Duse.
Pubblico fedele, una comunità, almeno un paio di generazioni, da nord a sud, qui nella capitale universitaria d’Italia si vede anche meglio. Con ognuno hanno sviluppato una zweisamkeit, una “solitudine a due”, un rapporto speciale. Loro ci hanno scherzato spesso in passato: “Siamo i nuovi Nomadi”. Hanno portato sul palco mimi e monocicli e lanciatori di coltelli, aperto con Fino a spaccarti due o tre denti, suonato in galleria per quelli più lontani, si sono truccati a metà tra Kiss e Pierrot, recuperato La democrazia semplicemente non funziona e Vanagloria, “riesumato i papiri” da primi album. Non ormai un classico: lacrime in platea, lascia storditi, una coltellata a freddo senza una goccia di sangue a zampillare – trovatevi qualcuno per ballarla lenti abbracciati a fine serata e tornare a casa insieme, al caldo, a letto.
Lecito aspettarsi qualche altro arrangiamento cucito apposta per il teatro, magari qualche altro elemento in più – la loro produzione si è d’altronde stratificata oltremodo negli ultimi album. Come con Andate tutti affanculo. Certi pezzi in poltroncina sono tutto uno scalpitare, uno smaniare seduti, come quei concerti in piena era covid all’aperto senza poter alzarsi. Sempre uguale la festa della liberazione in chiusura con L’anima non conta e Viva, solo sfiorata l’invasione di palco. La famiglia è punk ma educata. Gli Zen Circus restano genuini e autorevoli come il campanile della chiesa di San Michele degli Scalzi a Pisa: meno famoso e più ricercato, meno turistico ma più pendente della Torre universalmente nota. Sono stati un ultimo teatro accogliente.
Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
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