Che fine ha fatto il loss and damage? L’accordo della Cop27 su un fondo assicurativo internazionale a compensazione di perdite e danni, destinato a risarcire i Paesi più poveri e vulnerabili agli effetti della crisi climatica, è stato accolto con un giustificato entusiasmo da parte di media, politici ed esponenti della comunità scientifica.
La conferenza di Sharm el-Sheikh ha ribadito con fermezza un concetto essenziale: è giunto il momento di adattarsi a un’emergenza in parte impossibile da fermare, finanziando la ricostruzione e la sopravvivenza delle comunità che, inermi e senza strumenti per proteggersi, ne subiscono ingiustamente gli effetti. Questa crisi non è stata innescata da loro, ma dall’industrializzazione sfrenata e violenta delle economie più sviluppate. Che ora devono aprire il portafoglio e pagare un “debito” climatico sulle spalle dei più deboli. Secondo Oxfam, quasi otto crisi umanitarie su dieci sono ormai causate (del tutto o in parte) dalla crisi climatica: il margine di azione è sempre più sottile.
La stretta di mano del novembre 2022 è solo un primissimo passo: il fondo ancora non esiste e i nodi da sciogliere sono molti. Le risorse potrebbero aggirarsi attorno ai trecento miliardi annui, ma non ci sono certezze. Chi deve pagare di più? E in base a quali criteri? Parteciperanno anche le aziende fossili o solo gli Stati? Sarà un loss and damage totalmente a fondo perduto? Le domande senza risposta sono molteplici, e il ticchettio dell’orologio della Terra si fa sempre più assordante. Il livello dei mari si alza, i ghiacciai si sciolgono, i fenomeni siccitosi sono sempre più lunghi e intensi, la desertificazione avanza e gli eventi climatici estremi sono più frequenti.
Tutti, Europa e Italia comprese, ne stiamo subendo le conseguenze. Tuttavia, chi rischia di maggiormente nel breve periodo sono gli Stati insulari del Pacifico, gli Stati africani in cui cibo, acqua e materie prime scarseggiano a causa della siccità, gli Stati asiatici o sudamericani scoperchiati da tifoni, uragani, alluvioni. Arrivare alla Cop28 (30 novembre-12 dicembre) senza una proposta strutturata, etica e concreta per rendere operativo il fondo è un rischio che tante economie globali non possono permettersi. Sarebbe, inoltre, l’ennesimo schiaffo alla credibilità delle conferenze delle parti sul global warming.
È da una decina che si parla del principio del risarcimento climatico (i primi articoli sul tema risalgono al 2013), e alcuni Paesi europei stanno già stanziando autonomamente delle risorse per le “perdite e danni”. La Danimarca, ad esempio, ha speso cento milioni di corone (tredici milioni di euro) per un fondo di loss and damage; il Regno Unito 2,2 milioni e la regione belga della Vallonia un milione. Un fondo globale che metta d’accordo tutti, però, è decisamente più spinoso per ragioni tecniche e diplomatiche.
A mettere nero su bianco il piano d’azione, da approvare e affinare durante la Cop28, sarà un «comitato di transizione» composto dai rappresentanti di dieci Paesi sviluppati (permanenti) e di quattordici Paesi in via di sviluppo (a rotazione). A capo del gruppo di lavoro ci sono Richard Sherman (delegazione Onu del Sudafrica) e Outi Honkatukia (delegazione Onu finlandese). Il loro operato sarà sostenuto da un’unità di supporto tecnico (Tsu), a cui partecipano dipendenti delle Nazioni unite ed esponenti delle istituzioni finanziarie internazionali e delle banche multilaterali di sviluppo.
Il primo incontro si è tenuto settimana scorsa a Luxor, in Egitto, dove si è tracciata una road map senza però affrontare questioni delicate e decisive. Non siamo ancora al momento dei dettagli, ma mancano poco più di sei mesi alla conferenza di Dubai. Mohamed Nasr, principale negoziatore per il clima dell’Egitto, ha detto all’agenzia Reuters che i delegati hanno parlato quasi esclusivamente delle lacune dell’architettura finanziaria green attuale, tralasciando proposte specifiche inerenti al nuovo fondo di loss and damage.
Il comitato di transizione ha parlato delle potenziali forme che potrebbe acquisire il fondo climatico, ma le decisioni definitive verranno prese e approvate durante la conferenza sul clima del novembre 2023: «Rispetto ad altri fondi simili, quello su cui si sono accordati alla Cop27 dovrà fornire le risorse in maniera immediata, qualora dovesse verificarsi una catastrofe climatica (Extreme events, ndr). Al tempo stesso, dovrà aiutare i Paesi meno sviluppati che sono esposti a fenomeni più lenti ma progressivi come l’innalzamento del livello del mare o la desertificazione (Slow onset events, ndr)», spiega a Linkiesta Giulia Giordano, responsabile dei programmi internazionali del think thank Ecco.
I finanziamenti dovranno essere erogati con reattività: «Anche due-tre giorni prima o due-tre mesi prima di un evento climatico estremo che si può prevedere. Faccio un esempio: quando sta piovendo tanto in un’area particolarmente vulnerabile, si possono finanziare delle azioni anticipatorie per evitare che un fiume esondi e faccia danni. Come detto, ci saranno anche degli interventi di assistenza al momento dell’impatto: qui si verificherà una coincidenza con gli aiuti umanitari, ma non sono la stessa cosa», precisa Giordano, che ha alle spalle una lunga esperienza nel campo della diplomazia climatica (è stata anche direttrice dei programmi internazionali di EcoPeace Middle East).
Il tema più delicato, e su cui sarà più difficile trovare un accordo in vista della Cop28 di Dubai, riguarda i Paesi che dovranno contribuire al fondo. Di solito la partecipazione è volontaria (ma tirarsi indietro comporta delle conseguenze non scritte piuttosto gravi) e gli Stati contribuiscono con donazioni erogate a intervalli di tempo regolari. Alla Cop27, gli Stati Uniti hanno insistentemente premuto su un allargamento della base dei donatori ai Paesi che, sulla carta, sono considerati “in via di sviluppo”, ma che hanno vissuto una crescita economica ormai incompatibile con quell’etichetta: «Parliamo di Cina, India, Arabia Saudita ed Emirati Arabi», sottolinea Giordano.
Non a caso, pochi giorni fa, la Camera dei rappresentanti americana ha approvato all’unanimità un disegno di legge che sollecita il segretario di Stato Blinken a lavorare per privare la Cina dell’etichetta di “Paese in via di sviluppo”.
Il comitato di transizione dovrà individuare, tenendo conto delle esigenze dei vari Paesi, un criterio di erogazione fondato su un bilanciamento tra responsabilità storica e attuale. La Cina, ad esempio, si è sviluppata più tardi dei Paesi europei, ma nel 2018 ha emesso 590 chilogrammi di CO2 equivalente per mille dollari di Pil: molto meno dei 370 degli Usa e dei 230 dell’Unione europea. Insomma, sono bastati pochi anni per ribaltare la situazione.
Secondo Giulia Giordano, però, «non dobbiamo focalizzarci solo su quali Stati dovranno pagare i danni». In questi mesi di negoziati, infatti, si discuterà anche di un potenziale contributo versato dalle compagnie fossili, che spesso operano su scala transnazionale: «Il problema è che si creerebbe un precedente enorme in fatto di liability. Le industrie fossili vorrebbero evitarlo, perché comporterebbe un’apertura ad altre azioni legali nei loro confronti», aggiunge. In più, il comitato di transizione sta pensando di aprire ai contributi dei privati, in quanto la finanza pubblica rischia di non rivelarsi sufficiente. Il principio è: i governi, per primi, stanziano dei fondi con l’intento di attrarre investimenti privati che moltiplichino l’investimento iniziale, innescando un circolo virtuoso.
«I lavori sono partiti un po’ tardi, ma stanno procedendo. Non mi sento di dire che siamo in ritardo, anche perché si deciderà tutto alla Cop28», dice Giulia Giordano, che spera in un loss and damage «che sappia integrare una visione diversa della finanza internazionale. Ci sono tanti fondi più o meno verdi che funzionano a stento. Quello di Sharm dovrà ristrutturare un sistema anacronistico».