PENSIERO PER DOMENICA – QUARTA DI AVVENTO – 18 DICEMBRE
Nella vita arrivano momenti di buio totale, a livello personale, familiare o politico-sociale. Le letture di questa quarta domenica di Avvento ne configurano due. Il re Acaz, nel 734 a.C., è coinvolto in una guerra che mette in forse la sopravvivenza di Gerusalemme (Is 7,10-14). Giuseppe, promesso sposo di Maria, si trova spiazzato dalla scoperta della gravidanza di lei, forse interpellato dalla sua richiesta di aiuto (Mt 1-18-24). Entrambi i personaggi chiedono aiuto: uno a Isaia, l’altro a Dio.
Dio ci è vicino, ma non è facile “vederlo”. Egli ci dà dei segni, alcuni sono visibili a un occhio umano attento, come la prossima maternità della regina. Isaia invita a leggere in essa il segno che la discendenza davidica non finirà e dunque che la guerra non segnerà la fine del regno di Giuda. Il segno poi sarà sovrabbondante, perché il nascituro sarà il re Ezechia, un re giusto e pio, il re che, insieme a Davide, più si avvicina al Messia. Invece, la sfida per Giuseppe è molto più ardua: dal punto di vista umano deve decidere se abbandonare Maria al suo destino (probabilmente di morte, perché questa era la pena per la gravidanza fuori del matrimonio) o se accoglierla fidandosi di lei. In un modo misterioso – un sogno! – Dio lo indirizza verso questa seconda scelta. E Giuseppe si fida!
Il segno che Dio offre sono due donne incinte, all’inizio della gravidanza, quando ancora nulla era visibile. Il nuovo che Dio sta costruendo nella storia noi non lo vediamo, ma c’è già. Anche nel nostro mondo. Anche in questo Natale! Questa è la sfida della fede: credere che la salvezza che aspettiamo, ma non vediamo, è già reale, si sta già realizzando, sta già crescendo.
Il rischio che oggi corriamo è di non essere più in grado di vedere i segni della presenza e della vicinanza di Dio. Quando si vive costantemente lontani da lui, “come se Dio non esistesse”, c’è il rischio che i nostri occhi perdano la capacità di “vedere” Dio. Peggio, c’è il rischio che non sappiamo più nemmeno chiedere aiuto, come Acaz. Il rischio che noi corriamo l’ha delineato con estrema chiarezza Cesare Pavese, in una pagina del suo Diario: «La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che il supremo conforto, la religione, consiste nel trovare una compagnia che non inganna, Dio. La preghiera è uno sfogo come con un amico. Tutto il problema è dunque questo: come rompere la solitudine, come comunicare con gli altri». Lui, all’occorrenza, non è stato capace di farlo. Chiediamo al Signore di saperlo fare noi.
Lidia e Battista Galvagno