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Il primario Giusto Viglino in pensione dopo 43 anni tra Alba e Verduno. “Ho ancora utopie da trasformare in progetti”

Qualche giorno fa, durante l’inaugurazione del nuovo auditorium dell’Ospedale di Verduno, è stato premiato con una targa per i suoi 43 anni di servizio. Giusto Viglino, ex primario Nefrologia, Dialisi e del dipartimento di Medicina non ha comunque la minima idea di fermarsi. “Non sono portato per essere inattivo, voglio realizzare progetti utili, lasciare che camminino con le proprie gambe per poi dedicarmi ad altro”.

Nel suo discorso ha parlato della pensione come una fase di passaggio.
“Sì, per quanto riguarda la mia vita professionale vorrei poter continuare a dedicarmi in maniera più approfondita a innovazione e ricerca. Sfrutterò il tempo e le minori incombenze per occuparmi con più energia alla realizzazione di nuovi modelli di assistenza e cura, che è una delle finalità della telemedicina. Con l’Asl abbiamo studiato un contratto a titolo volontario per permettermi di continuare i miei progetti in questo ambito”.
Molti suoi progetti sono nati da un’intuizione.
“L’idea di utilizzare la telemedicina nacque nel 2002 da una considerazione ovvia, quanto utilizzavamo il cellulare per ogni tipo di comunicazione in ambito sanitario. E allora mi sono detto: “Perché non migliorare lo strumento anche con un supporto video per assistere e curare il paziente?”.
E sull’ospedale di Verduno?
“La mia prima idea dell’ospedale unico nacque nel 1994, fu una sorta di flash, ma tutto mi apparve abbastanza chiaro. Non era solo una intuizione, ma il frutto di elaborazioni precedenti, di condivisione, di scambi con altre persone che poi entrarono a fare parte del Comitato per il Nuovo Ospedale. Per me era evidente che ci voleva una struttura moderna per poter stare al passo coi tempi”.
Non mancarono le critiche, all’epoca.
“Si pensava che Alba e Bra non si sarebbero messe mai d’accordo, che il progetto fosse troppo ambizioso e troppo a lungo termine. Una buona idea necessita di tempo per la sua realizzazione: per fortuna la macchina è partita e c’è stata una collaborazione tra gli enti, le autorità, le forze politiche e sociali che ha portato alla struttura di oggi”.
Quindi anche le piccole idee possono portare a grandi risultati.
“Ci vuole tempo, un po’ di incoscienza e anche la fortuna di avere una squadra di persone con cui condividere le tue idee e i progetti, oltre a superiori che ti permettono di lavorare senza metterti barriere. Anni fa abbiamo lavorato su un modello di assistenza e cura che permettesse di prevenire le complicanze e l’evoluzione della malattia renale verso la dialisi. Abbiamo avuto una riduzione del 25% dei pazienti dializzati, e oggi abbiamo il numero più basso di tutto il Piemonte”.
Lei parla di nuovi modelli per la medicina.
“Bisogna precisare che ogni soluzione non è un miracolo. La telemedicina, per esempio, può essere un nuovo modello con cui realizzare l’assistenza e la cura sul territorio, puntando alla deospedalizzazione, integrandosi e non contrapponendosi agli strumenti e alla metodologia della medicina tradizionale per raggiungere una maggiore equità di accesso alle cure e una migliore efficienza ed efficacia del Sistema Sanitario. Le faccio degli esempi concreti”.
Prego.
“Partirei dalla visita in ambulatorio; rispetto alla tradizionale visita in presenza la telemedicina può offrire nuove possibilità: posso monitorare i parametri dei pazienti, registrando quelli che hanno valori buoni e meno buoni. E allora posso concentrarmi su quelli che stanno peggio o che non rispondono alle cure”.
In che modo?
“Ad esempio, introducendo nel percorso di cura nuove figure come gli infermieri di famiglia che parlino con i pazienti, che si occupino della teleassistenza e valutino anche come i malati stiano portando avanti la terapia. Lo sa che solo una percentuale tra il 50 e il 60% dei pazienti prende le medicine in maniera corretta? In questo modo, magari, il medico visiterebbe in presenza solo 25 su 100 pazienti e gli altri sarebbero seguiti, in una maniera diversa, anche più assidua”.

Questo approccio può funzionare in altri contesti?
“Al Pronto Soccorso o per i pazienti ricoverati, per esempio. Con una migliore assistenza a casa con la telemedicina alcuni pazienti potrebbero evitare il ricovero o essere dimessi prima. La possibilità di cura potrebbe essere amplificata anche in strutture ambulatoriali territoriali e migliorato il consulto tra specialisti di diversi ospedali, creando reti virtuose. Certo, la creazione di un modello implica identificare diversi elementi: il paziente a cui ci si vuole rivolgere, la patologia di riferimento, definendo quello che posso fare, con quali strumenti e la tecnologia appropriata”.
Nel caso della telemedicina non mancano le criticità: la necessità di avere a disposizione una tecnologia adeguata, una sensibilizzazione culturale, per esempio.
“Le aggiungo anche la mole di attori che sono coinvolti nei progetti e non mi riferisco solo ai medici o al personale sanitario. Pensi ai fornitori, ai manutentori a chi si occupa di leggi e normative. Senza dimenticare che bisogna ipotizzare modelli fluidi, che cambiano con le esigenze e le trasformazioni della società. La telemedicina non è rivolta solo a chi sa usare i social, pertanto richiede la disponibilità di strumenti utilizzabili anche da persone che non hanno particolari competenze tecnologiche”.Ci può aiutare a capire meglio?
“Facciamo un salto indietro nel 2002, la prima dialisi a domicilio assistita con la telemedicina. Mi ricordo che la tv era di quelle con il tubo catodico, con il trapano avevo fissato una telecamera a parete. Oggi abbiamo dei totem, una tecnologia molto più avanzata e semplice da utilizzare. Durante la pandemia usavamo una piattaforma per le videochiamate ai pazienti. Solo il 17% lo faceva in maniera autonoma, senza l’aiuto di figli o nipoti. Utilizzando un tablet con un sistema di accesso semplificato, si è passati al 70% con un’età media che si è alzata dai 50-55 anni ai 70 anni”.
Idee, perseveranza, condivisione, cosa serve di altro per trasformare un’utopia in un progetto?
“Ci vogliono passione, la curiosità e la voglia di sperimentare. Non bisogna avere paura del cambiamento e accettare anche i rischi e l’imprevedibilità che comporta. Una frase da non dire mai è “se non è già stato fatto, evidentemente non si può fare”. Con questo modo di ragionare non sarebbe cambiato mai niente”.Oltre alla passione per la medicina, ne ha altre?
“Mi piace sciare, andare in barca a vela, in moto e in bicicletta, viaggiare e fare fotografie”.
Un consiglio che si sente di dare ai giovani medici?
“Di seguire i propri sogni, di essere aperti, di apprezzare la routine, ma anche le cose nuove, la sperimentazione e il cambiamento. E soprattutto di imparare a non arrendersi. Mio padre mi diceva sempre: “Te le vai a cercare”. Io mi arrabbiavo, ma era vero. Realizzare qualcosa di nuovo è sempre stata un forte stimolo per me”.

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