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Intervista a Gianni Cuperlo: “Con la conta il Pd si suicida” – Il Riformista

Il dibattito sul futuro dei dem

Umberto De Giovannangeli — 13 Dicembre 2022

Intervista a Gianni Cuperlo: “Con la conta il Pd si suicida”

Rifiuta di ridurre il dibattito costituente ad una corsa alla segreteria. E a Il Riformista, Gianni Cuperlo, presidente della Fondazione Pd, parlamentare e membro del Comitato costituente del “nuovo” Partito democratico, illustra la sua posizione. La discontinuità, è il suo messaggio, è tutta da costruire. E non si riduce a un volto e a un nome.

Bonaccini e Schlein: lei ancora non ha scelto chi sostenere. Ma è sempre stato, con intelligenza, un uomo di parte, nel senso più alto del termine. E ora?

Non discuto la qualità delle persone, Stefano, Elly, Paola. Penso, però, che dopo tre sconfitte pesanti – il referendum costituzionale del 2016, le elezioni politiche del 2018 e le ultime – sia un dovere affrontare le radici del collasso di un partito nato quindici anni fa con l’ambizione di essere la forza della sinistra italiana per il nuovo secolo. Invece si è scelta la strada nella sostanza più in continuità col passato, il lancio di candidature alla leadership prima ancora di conoscerne le piattaforme con l’inevitabile arruolamento di correnti e notabilati. Tutto questo può spingere il Pd in un angolo e produrre nuove divisioni.

Cioè lei vede all’orizzonte la fine di quel progetto?

No, io non penso che la crisi del Pd sia irreversibile, continuo a pensare che l’ambizione che ne stava alla base si sia rivelata molto più solida dei gruppi dirigenti che in questi anni ne sono stati gli interpreti. Se non fosse così non riuscirei a spiegarmi la forza di volontà e la passione di migliaia di iscritti e segretari di circolo capaci di sopportare scelte che li hanno marginalizzati dalle decisioni e privati delle risorse minime per uno straccio di iniziativa politica. Eppure resistono, a Milano e in Lombardia affrontano la prova delle regionali con un sostegno a Pierfrancesco Majorino che si può solo ammirare, e lo stesso spero avvenga nel Lazio per Alessio D’Amato. Ma era anche di questo che avrei voluto discutere, come restituire un senso alla partecipazione in un tempo segnato da una democrazia fragile e con partiti sempre più identificati con le sole istituzioni. I diciotto milioni di astenuti alle urne del 25 settembre sono la denuncia del fallimento di mille analisi, anche della sinistra, sulle virtù esclusive del governismo. Rimuovere questi snodi per riprodurre la sfida maggioritaria nel Pd sul futuro segretario mi pare il modo per eludere la realtà riparando nel già visto e vissuto. Spero di sbagliarmi, ma non mi sarei sentito leale verso la mia comunità se non avessi detto ciò che penso e che temo.

Non c’è il rischio che il dibattito congressuale e la fase costituente del “nuovo Pd” si risolvano con il vecchio gioco del posizionamento del gruppo dirigente su questo o quel candidato alla segreteria? Dov’è la discontinuità col passato?

Sì, certo che il rischio esiste, ma è frutto dell’ambiguità che per anni ha confuso i termini correntismo e pluralismo. Non denuncio le correnti come il male, fosse solo perché quel metodo di selezionare e promuovere i “propri” dirigenti ha riguardato tutti. Il punto è che non sono state all’origine di un effettivo pluralismo, non hanno prodotto elaborazione, idee. Il risultato è che su passaggi rilevanti non si è mai aperta una vera discussione. Abbiamo vissuto un paio di scissioni quasi senza batter ciglio e quando l’ultimo segretario eletto con le primarie, Zingaretti, si è dimesso spiegando che si vergognava di un partito che discuteva solo di cariche, non si è scelta la via del confronto magari impietoso su quella denuncia, ma si è preferita la strada meno faticosa, affidare a un generoso Enrico Letta le chiavi del condominio. In tutto questo vedo una sola eccezione ed è l’esperienza dei sindaci che per la prossimità ai problemi dei loro cittadini hanno preservato un grado di credibilità che oggi rappresenta un patrimonio prezioso anche se da solo non basta. Anche per questo avrei voluto un congresso diverso nei tempi e nei modi, per evitare di ricadere negli errori del passato. Ora con altre e altri valuterò che fare.

Identità. Mai parola fu più evocata a sinistra. Ma senza sostanziarla, resta una parola “appesa”. Ma non sarà proprio il restare nel vago, il navigare in superficie, la condizione per tenere insieme le varie “anime” Dem?

Se un concetto così strategico è rimasto “appeso” è anche per il contrasto tra molte scelte fatte e i principi che avremmo dovuto applicare con una coerenza spesso mancata. Non ti puoi scagliare contro il populismo e poi favorire una politica per soli ricchi quando cancelli ogni finanziamento pubblico ai partiti oppure issare la bandiera della rappresentanza e qualche mese dopo votare il taglio di un terzo del parlamento perché era la condizione posta dai 5Stelle per tornare al governo senza passare dalle urne. Non puoi minacciare le barricate sull’autonomia differenziata dopo che la riforma del Titolo V l’abbiamo fatta noi pensando di azzoppare le pulsioni secessioniste della Lega e non puoi lamentarti di una pessima legge elettorale dopo che non siamo riusciti a cambiarla. In compenso abbiamo calpestato le nostre stesse regole come in alcune realtà del Sud dove la presenza di donne capolista e giovani è stata sacrificata. Perché poi le persone ti giudicano su questo. Oggi quell’identità per non rimanere “appesa” deve riflettere sul prima, ma soprattutto attrezzarsi per un dopo che è iniziato il giorno dell’insediamento del governo più a destra della storia repubblicana. Dobbiamo farlo perché in quindici anni è cambiato molto: la crisi, la pandemia e la guerra, ora il ritorno prepotente di una questione morale, basterebbero questi temi a motivare un congresso che ricollochi il Pd nel futuro prossimo con la destra al potere e una donna premier fiera della “fiamma” nel simbolo. Siamo a un bivio che riguarda anche la nostra esistenza.

Peccato sia precisamente sul fronte dell’opposizione che si registra un’afonia talvolta imbarazzante.

Abbiamo parlato di regole, candidature, identità, ma per me adesso la priorità è contrastare un governo pericoloso per le conseguenze sociali che sta producendo. Sul reddito di cittadinanza la protesta contro il taglio previsto nella manovra è sacrosanta e va fatta esplodere nel paese, non solo nelle aule del parlamento. Togliere quell’assegno a 846mila persone per risparmiare 734 milioni è un atto di violenza verso nuclei familiari che precipiteranno sotto la soglia di povertà. Se l’antipasto della “pacchia è finita” era stato il decreto contro i rave e la gestione oscena dei migranti a Catania, appena si è passati alla sostanza – lavoro, fisco, pensioni, salute – il carattere della destra si è manifestato in tutta la sua natura. Tagliare la perequazione delle pensioni cambiando i criteri di indicizzazione al costo della vita lascerà nelle casse del governo 3 miliardi e 300 milioni l’anno prossimo e altri 15 nei due anni successivi, ma sono tutte risorse tolte dal portafoglio di pensionati alle prese con un’inflazione che si divora il carrello della spesa. Le stime dei sindacati sull’impatto di Quota 103 e sulla soluzione per Opzione Donna descrivono modifiche nei fatti insostenibili e destinate a riguardare un numero esiguo di persone. Sul fronte fiscale la flat tax sino a 85mila euro per professionisti e autonomi ha spinto Vincenzo Visco a parlare di “follia pura, discriminazione gratuita, sfrontata provocazione, totale irresponsabilità”. L’effetto sarà di incentivare l’evasione e il nero, in un paese già maglia nera in Europa su entrambi i fronti. Per chiudere il cerchio c’è la reintroduzione dei voucher fino a 10mila euro, altro segnale della volontà di “non disturbare chi produce” con tanti saluti a quell’esercito di riserva nel mercato del lavoro condannato alla precarietà. Non per caso sono contrari anche a un salario minimo. Questi temi peseranno nella definizione di quella identità che si è smarrita non solo per ciò che abbiamo detto e fatto, ma di più per tutto ciò che non abbiamo avuto il coraggio di dire e di fare.

Lei teme la parola “socialismo” o la considera ormai un reperto archeologico del secolo scorso?

Dico a me stesso che di fronte alle notizie sull’inchiesta delle autorità belghe in materia di corruzione dal Qatar la prima parola che una ragazza o un ragazzo associano a quel termine è vergogna. Spero che si faccia chiarezza nel tempo più breve, che le responsabilità dei singoli vengano accertate e i reati eventuali puniti. Resta il dato in sé, la percezione di una caduta drammatica di reputazione della sinistra nella coscienza di milioni di persone. Il punto non è spiegare che il termine socialismo rimane ancorato a valori di giustizia sociale e libertà attuali oggi quanto e più di ieri, su questo non ho dubbi. E non è nemmeno sensato ripetere che il garantismo chiede sempre e comunque il rispetto della presunzione d’innocenza. La realtà è che quel concetto, socialismo, non è da solo sufficiente a contenere in sé la complessità di un mondo traversato da mutamenti senza precedenti rinnovando al contempo la tradizione di un “popolo in marcia” rimasto a lungo orfano di una utopia da fare sua. Il fallimento di alcune classi dirigenti oltre a riproporre dentro la famiglia socialista la questione morale denunciata quarant’anni fa dal capo dei comunisti italiani dice anche di un’etica pubblica da riscoprire. Per me il congresso del Pd ha senso se riparte da qui.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

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