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Ortega, filosofo della vitalità – Marcello Veneziani

di Marcello Veneziani

Ma chi era José Ortega y Gasset di cui parlano oggi i giornali in seguito alla visita del Ministro dei beni culturali Gennaro Sangiuliano alla Fondazione dedicata al filosofo a Madrid? 

Non riesco a pensare José Ortega y Gasset come un filosofo cattedratico, un austero  accademico perduto tra biblioteche e teorie. E mi sorprendo a pensarlo come amico di Heidegger, antagonista di Unamuno, collega di Gentile. Perché il senso che lascia dopo aver letto i suoi libri, è di leggerezza, come se toreasse con le idee e col suo tempo, in punta di piedi in una plaza soleggiata. Figlio di giornalisti – sua madre proprietaria e suo padre direttore de El Imparcial – Ortegà concepì la vita come gioco, si occupò di filosofia in relazione allo sport, alla caccia, all’arte e allo spettacolo, oltre che dei temi più canonici per un filosofo. E criticò il suo tempo, epoca di masse, per la sua volgarità dominante, che è forza di gravità perché trascina verso il basso. Alla pesantezza della massificazione Ortega oppose l’energia sottile delle élite. Brillante più che profondo, versatile più che analitico, per Camus fu “il più grande scrittore europeo dopo Nietzsche”. Ortega stesso si paragonò a un torero, e così appare quando disegna veroniche col suo argomentare; sembra di vederlo vestito con la sua chaquetilla e il suo Traje de Luces, luccicante di trame dorate, per rendere la sua filosofia una lotta tra luce e tenebre, tra vita e morte, tra gioco e destino. 

La sua ispanità non gli impedì di sentirsi europeo e amante d’Europa, dalla Germania in cui approfondì i suoi studi filosofici (e Unamuno gli rimproverò la sua subalternità alla kultur tedesca), all’Inghilterra che amò come la patria in cui libertà e tradizione coabitavano felicemente. Dove Gladstone disse che la libertà è la via per promuovere non l’uguaglianza ma l’aristocrazia. Ortega ritenne “invertebrata” la sua Spagna perché non ha avuto un’aristocrazia feudale di stirpe sassone, germanica. Non a caso l’autore che viene più accostato a lui, per la visione elitaria, la difesa della civiltà e della libertà, l’attenzione verso la società dello spettatore e la scoperta dell’homo ludens, non è mediterraneo ma olandese: è Johan Huizinga e proviene da studi storici. 

L’opera più famosa di Ortega lo propone più come sociologo che come filosofo: è La ribellione delle masse, uscita nel 1930, una diagnosi impietosa sull’avvento delle masse, e sull’uomo-massa che ne è il prototipo; un individuo eterodiretto, conforme, che risponde ai riflessi condizionati, perde i suoi tratti identitari di persona nella riduzione atomistica di massa. E’ l’epoca dei regimi di massa ma si profilano anche i consumi di massa: Ortega infatti critica l’esperienza comunista sovietica e quella fascista, come regimi illibertari di massa, ma ritiene che la società americana sia il paradiso (e dunque l’inferno, dal suo punto di vista) della società di massa. Dell’universo novecentesco delle masse, Ortega criticò il quadrifarmaco di base: 

il progressismo storico, l’egualitarismo sociale, l’utilitarismo morale e il pacifismo politico. Da qui la sua critica all’iperdemocrazia, al dominio della volgarità che si impone dappertutto, al conformismo di gregge, all’egemonia del materialismo: tratti che sono presenti più nell’americanizzazione del mondo che nei regimi autoritari e totalitari. Alla massificazione Ortega oppose la selezione, la qualità, il primato dell’individuo, la visione liberale nel senso di Tocqueville, l’amore per la storia. Il liberalismo orteghiano in realtà si coniugava con valori preliberali, anzi premoderni. All’etica industriale di Spencer, Ortega preferiva l’etica dello spirito guerriero, l’etica cavalleresca. Ortega amava il Medioevo, il suo mondo, i suoi eroi, i suoi castelli (“ci inviano idee”). E proprio sui Terrori dell’anno mille scrisse la sua tesi di laurea. 

E’ notorio, scrive Ortega, che “io sostengo un’interpretazione aristocratica della storia”, aggiungendo: “non ho mai detto che la società umana debba essere aristocratica ma molto di più di questo. Ho detto e continuo a dire che la società umana è sempre aristocratica, lo voglia o no, fino al punto che è società solo nella misura in cui è aristocratica,e cessa di esserlo nella misura in cui si disaristocratizza”. Ortega condivide la concezione elitista di Pareto, Mosca e Michels. Il dubbio che resta è se l’aristocrazia sia il governo dei migliori o possa essere il potere dei pochi, cioè l’oligarchia, indipendentemente se siano o no gli optimes. La riduzione delle aristocrazie a oligarchie dominanti riemerge a fine novecento: La ribellione delle élite dello statunitense Cristopher Lasch è in fondo la prosecuzione speculare dell’opera orteghiana, perché indaga l’altro versante, l’emisfero in ombra dell’élite e vede sorgere il populismo, come reazione alle oligarchie e alla democrazia tradita.  

Il pensiero orteghiano si fonda su quattro pilastri: la visione ludica della vita, il gioco come motivo nobile della vita; la scoperta della ragion vitale, che è qualcosa di più del vitalismo (fu definito raziovitalismo) e di diverso dall’esistenzialismo; il prospettivismo, secondo cui la verità esiste, la realtà pure, ma ciascuno le coglie attraverso la sua prospettiva, e il rispetto “liberale” delle differenti prospettive ne è la conseguenza, contro ogni assolutismo; e infine la considerazione che l’uomo è anche ciò che lo circonda, “io sono io e la mia circostanza”, l’identità di un uomo non può essere deterritorializzata, privata delle condizioni spazio-temporali in cui vive, del mondo che lo circonda, le sue relazioni, i suoi legami affettivi, conta l’habitat, l’ambiente. L’individuo orteghiano è individuo sociale. E ciò si tradusse politicamente in una sua apertura al liberal-socialismo o liberal-laburismo; un socialismo riformista, pragmatico. 

Sul piano storico Ortega si schierò dalla parte dei repubblicani nella guerra civile spagnola e lasciò la Spagna per molti anni. Ma poi tornò e scese a patti col franchismo, pur restando impermeabile al nazionalismo e al cattolicesimo. 

Per Ortega gli europei dovevano guarire dal loro idealismo che a suo dire era il presupposto comune di ogni materialismo, positivismo e utopismo. “Dobbiamo smettere di vivere a partire dalle nostre idee e imparare a vivere a partire dal nostro inesorabile, irrevocabile destino”. La storia dei nostri anni ha dimostrato come si possa perdere ogni traccia di idealismo, spegnere ogni anelito di passione ideale o ideologica, senza per questo imparare a vivere seguendo il proprio destino. Siamo usciti da entrambi, ideali e destino, e viviamo nella loro dissoluzione. Cioè viviamo senza pensare, secondo occasione, in automatico, dove ci portano gli input o gli impulsi. Un secolo dopo, la masse inveiscono ma non si ribellano più. Ma non hanno cessato di essere masse, hanno accentuato la loro solitudine di monadi senza perdere la tendenza a uniformarsi. Individualisti, narcisisti ma globali. Di massa.

(Da Impredonabili, Feltrinelli)

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