- 13 Dicembre 2022 15:18
Nonostante l’esperimento riuscito negli Stati Uniti, la fusione nucleare è ancora lontana dall’uso commerciale. Ma nel lungo periodo potrà essere un’alleata fondamentale per la decarbonizzazione. Il punto di Marco Dell’Aguzzo
Per la prima volta, un esperimento di fusione nucleare ha prodotto più energia di quanta ne è stata consumata durante il processo.
Quello ottenuto dal laboratorio Lawrence Livermore della California è un risultato straordinario e storico, che ci avvicina a una tecnologia che promette elettricità abbondante, stabile, priva di anidride carbonica e anche povera di scorie radioattive: lo scarto principale della fusione dell’idrogeno è infatti il trizio, un isotopo dalla bassa radioattività e a decadimento rapido.
Piano con gli entusiasmi, però. Nonostante il traguardo raggiunto negli Stati Uniti, la fusione nucleare deve ancora superare tante sfide ingegneristiche ed economiche (l’intero processo va reso più efficiente e meno costoso, e fatto “scalare”) ed è lontana dall’uso commerciale.
Difficilmente, quindi, darà un contributo determinante alla transizione energetica. Anche perché le tecnologie utili alla riduzione immediata delle emissioni – rinnovabili, batterie, combustibili bio e sintetici, cattura del carbonio, fissione nucleare – sono già disponibili e provate, oppure si trovano a un livello di sviluppo più avanzato.
Ma la ricerca non deve fermarsi. Perché nel lungo periodo, intorno al 2050, quando saremo (si spera) già arrivati alla neutralità climatica, la fusione potrà essere un’alleata fondamentale per la decarbonizzazione profonda delle attività umane, oltre lo “zero netto”.
– Leggi anche: Cosa sta facendo Eni sulla fusione nucleare
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