Ci sono sempre più giornalisti che ormai fanno altro: le starlettes, i tuttologi della qualunque, i polemisti misteriosi. Il proliferare dei talk show (che hanno distrutto dignità e autorevolezza della professione) ha mandato in overdose comunicativa il pubblico. Il post di Luigi Chiariello (caposervizio a ItaliaOggi) tratto dal suo profilo Facebook
Quando, a otto anni, sognavo di fare il mio mestiere, il mestiere del giornalista, i cronisti erano visti come degli eroi, dei testimoni della storia. Erano gli occhi di chi non aveva occhi, la bocca di chi non aveva forza per parlare, interrogare, capire.
Al Tg vedevo i collegamenti di Franco Catucci e “da grande” desideravo fare come lavoro il “Franco Catucci”.
Chi è Catucci? Un inviato dei tg Rai che, a cavallo degli anni ’70-’80, un giorno era a Manila, nelle Filippine; il giorno dopo lo vedevi parlare da Santiago del Cile; poi dopo due giorni era in collegamento da Manaus, quindi passava a Bogotà senza fare un plissé.
Era una infaticabile pallina da ping pong tra gli eventi che sconvolgevano il Sud America e il far east. Un testimone e un narratore della storia che scorre.
Il mio sogno di bambino l’ho realizzato a metà: non sono diventato Catucci e neppure un inviato all’estero. Ma, comunque, sono un giornalista (giornalisti lo si è o lo si fa). E qualche pezzettino di storia recente, da vicino, l’ho vista scorrere pure io.
Oggi, però, a differenza di quando ero bambino, i giornalisti sono eroi solo quando crepano sotto le bombe o in un attentato.
Sempre più spesso mi imbatto in commenti da cui emerge che il più delle volte siamo considerati male: alla meglio delle fastidiose zecche del potere o degli avvoltoi del dramma umano; alla peggio (per la dignità) dei pennivendoli corrotti.
Comunque sia, complessivamente siamo reputati ignoranti. E di volta in volta veniamo insultati da una pletora di non lettori che si sentono toccati dagli articoli nei loro interessi, nel loro credo, nelle loro sicurezze.
La vulgata non fa distinguo. Che si sia un giornalista professionista o meno, un giornalista tecnico o sportivo, un commercialista mancato, un ex avvocato o un docente, chiunque sia “giornalista” rischia di essere visto di sottecchi. Criticato per la sua qualifica professionale, non per ciò che singolarmente fa.
Molti tra questi critici sono leoni da tastiera; hanno la verità precotta in tasca e pretendono di insegnare il mestiere del giornalista a chi quel mestiere lo fa da trent’anni. Pretendono di insegnarlo, senza aver mai visto una redazione e, probabilmente, neanche un giornale.
Abbiamo a che fare anche con gente che contesta dal divano di casa quello che un inviato testimonia con i suoi occhi, i suoi rischi, i suoi sudori, dal campo. Qualunque campo esso sia.
D’altro canto, ci sono sempre più giornalisti che ormai fanno altro: le starlettes, i tuttologi della qualunque, i medici al posto dei medici, i polemisti misteriosi.
Una volta c’era Gianfranco Funari. Oggi i Funari sono centomila, senza la qualità di Funari. I Minoli, invece, scarseggiano. Perle rare.
L’informazione come forma di intrattenimento ha distrutto la dignità e l’autorevolezza della professione: il proliferare dei talk show ha mandato in overdose comunicativa il pubblico.
Il più delle volte sono contenitori di narcisismo, che inondano le case degli italiani senza lasciare traccia nei lettori. Sono come acqua che scorre sulla roccia, senza fertilizzare il terreno per la semina. Ma hanno il pregio di costare molto meno dei varietà e aiutano a riempire i palinsesti TV con molte meno risorse.
Poi ci sono i blogger che, per carità, fanno il loro per passione, ma danno l’idea al pubblico di essere giornalisti. Beh, non lo sono e non hanno nessun vincolo professionale che imponga loro regole su ciò che scrivono. Possono dire che la luna è piatta e nessuno gliene chiederà conto; possono scrivere sulle loro pagine web fandonie e nessuno li trascinerà per questo in un tribunale. Perché?
Perché non hanno i vincoli che ha una testata registrata. Però il lettore questo non lo sa.
Quindi ci sono i cosiddetti “influencer”, che sono come dei cartelloni pubblicitari che camminano; ad essi oggi si dà credito. Il credito che i giornalisti sembra abbiano sempre meno. Eppure, a differenza dei giornalisti, gli influencer parlano solo per profitto, il loro profitto, e portano interessi di parte. Il più delle volte la loro parte.
Nonostante ciò, sempre più persone li accreditano di dignità informativa; anzi, il bello è che molti comunicatori ormai preferiscono avere a che fare con loro, piuttosto che con i giornali. Perché così le loro issues passano senza filtro e arrivano dritte dritte sugli smartphone di molta più gente. In primis, i consumatori di domani.
È il mercato, bellezza.
Infine, ci sono i lobbisti travestiti da opinionisti che fanno i commentatori sulla qualunque. Accreditandosi come osservatori terzi.
Così è dura difendere la professione. Ah… non ho finito!
Adesso c’è pure l’Intelligenza artificiale: c’è ChatGpt, che – dicono quelli che ne sanno – sostituirà i giornalisti. Solo che questa roba funziona come un grande confezionatore istantaneo di contenuti generati sulla base di dati consolidati sul web. Costruisce, cioè, in un nanosecondo tomi da millemila pagine sullo scibile umano, senza ovviamente fare ciò che un giornalista fa per missione: trovare le notizie, cioè anticipare le cose “nuove”, quelle che non si sanno o che devono ancora accadere. E, soprattutto, verificare che queste cose “nuove” siano reali.
Il giornalismo è in crisi. Ha perso molti lettori, divorato dall’informazione svilita a merce di basso rango. Nella sua degenerazione disumanizzata lavora sui click e sui titoloni urlati per generare traffico e sopravvivere. E questo finisce per renderlo non credibile. È un gatto che si morde la coda.
Ma ancor più, chi è davvero in crisi è il lettore. Che non legge più e si accontenta di ciò che un algoritmo gli propina sulla timeline. Perché “è gratis”.
Perché, in fondo, l’algoritmo è comodo: tratta sempre sentieri conosciuti. E questo gratifica il lettore, lo rassicura, gli fa credere di conoscere la scissione dell’atomo più di uno scienziato nucleare. Perché? Perché lo ha letto qui, su Feisbukki dove stai leggendo questo mio lungo e palloso panegirico.
E tutto questo al lettore piace, perché non lo destabilizza.
Il Truman show è compiuto. Io mi tengo Franco Catucci, ma sono nato nel secolo, anzi, nel millennio scorso. Quando essere cittadini consapevoli e informati era un valore studiato a scuola.
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